Cinquanta sfumature

Roberto Beccantini18 gennaio 2014

Ho seguito Roma-Livorno e Juventus-Sampdoria. In vista di Roma-Juventus di Coppa Italia (sfida secca, martedì sera), Garcia e Conte hanno risparmiato Totti e Pirlo. All’Olimpico non c’è stata partita, a Torino sì, ed è stata croccante, aperta, molto inglese. Destro, Ljajic e Gervinho, in gran vena, hanno giocato al gatto col topo. Il Livorno è in crisi, come documentano il cambio di allenatore e le otto sconfitte nelle ultime nove partite.

Non è facile fare le pulci alla capolista barricata dietro i numeri (e che numeri!): dodici vittorie consecutive, dieci su dieci in casa, otto punti sulla seconda e dieci in più di un anno fa, cinquanta sfumature di gol (alla media di 2,5 a partita).

Se l’avversario partecipa, il livello del gioco cresce. Mihajlovic ha partecipato, e come. Dente per dente, fino alla traversa di Gabbiadini e al gran destro di Pogba. Che primo tempo, la Juventus. Vidal (dieci reti) e Pogba (sei) ne sono stati i simboli. Consegno ai posteri l’azione del gol cha spaccato l’equilibrio: il passaggio del francese e l’esterno del cileno meritano l’ovazione. Mi è piaciuto Marchisio nella posizione di Pirlo, ho apprezzato la «garra» di Gabbiadini. La Juventus continua ad avere problemi – problemi grossi – sui calci d’angolo: era già successo a Cagliari. La qualità dei singoli, a cominciare dai riflessi di Buffon, ha fatto aggio sulla disciplina e la concentrazione del gruppo (penso alla rabona di Vidal, nella ripresa). Ripeto: è finito il girone d’andata, non il campionato.

Al posto di Chiellini, sbraccerei di meno. Al posto di Conte, avrei anticipato i cambi. «Bilbao77», lettore di fede juventina, mi invita a scrivere che «In Europa, tutte le disattenzioni di stasera le avremmo pagate care». Si può dire di no a un «paziente»?

Il maggiordomo

Roberto Beccantini12 gennaio 2014

L’unico rischio che corre la Juventus è quello che il sommo Gianni Brera definiva «morire di sé medesimi». Ha vinto anche al Sant’Elìa, con uno scarto che mortifica l’eccellente primo tempo del Cagliari, imbattuto da sette partite. Il maggiordomo evocato in settimana da Buffon è stato Adan, riserva di Avramov riserva di Agazzi. Ha spalancato la porta a Marchisio, quando la noia regnava sovrana, e a Lichtsteiner, fornitore degli assist a Llorente (testa/piede).

E così sono undici. Undici vittorie consecutive, record societario. La Roma rimane a meno otto, il Napoli a meno dieci. Il podio è questo: resta da definire l’ordine. Scollinare il girone d’andata a 52 punti (su 57) non è da tutti. E non è da tutti nemmeno la media-gol di 2,42, pari a 46 in diciannove gare.

Il risultato è fuorviante. Non è stata una passeggiata. Era dal 5 febbraio 2011 che la capolista non giocava a Cagliari. Per un’ora abbondante ne ha sofferto la tecnica, l’equilibrio, l’aggressività. Conti ha sfiorato il 2-0, Buffon ha evitato il 2-1. Non riuscivano, i campioni, a srotolare i propri tappeti. Cossu, tra i migliori, ha spinto Pirlo ai margini del match. Tanto che Conte l’ha sostituito con Marchisio. Le fragili mani di Adan l’hanno trasformato nell’hombre dell’episodio, allo stesso livello di Llorente, la cui doppietta illustra meglio di un trattato le alternative d’attacco, adesso che la lavagna contempla anche il cross dal fondo.

Su tutti, Lichtsteiner. Luci e ombre Vidal, Pogba, Chiellini, Caceres, Asamoah; e addirittura Tevez, per una volta. Un anno fa, alla diciannovesima, la Juventus si fece rimontare in casa dalla Sampdoria in dieci. In Sardegna, ha rimontato fino a straripare. A fare i pignoli, da Roma e Cagliari ha ricavato più gol che gioco. Ma oggi non voglio fare il pignolo. Mi fermo qui.

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Farina del suo Sacchi

Roberto Beccantini8 gennaio 2014

Interessante, il dibattito agitato dalle critiche di Arrigo Sacchi all’ultima Juventus, colpevole di aver battuto la Roma giocando all’italiana: «In Europa, le grandi squadre non aspettano, impongono il loro gioco». E giù una sfilza di nomi: l’Ajax del calcio totale, il suo Milan, il Barcellona di Guardiola, l’ultimo Bayern.

Non si può giudicare Sacchi dalla quantità. Si commetterebbe un grave errore. Certo, la nebbia di Belgrado. Certo, il braccio di Baresi: quando lo alzava in piazza Duomo, a Milano, era fuorigioco fino a piazza Navona, a Roma. Certo, Berlusconi e le sue truppe tele-cammellate. Arrigo, però, ha cambiato il calcio italiano: l’impatto, soprattutto. E’ stato scintilla, non fiammifero. Molti allenatori, Antonio Conte incluso, si rifanno al suo catechismo. Che, sia chiaro, non è assoluto: ed è stato traviato, addirittura, dai suoi seguaci, i boriosi «fusignanisti».

Visto da destra: ha vinto solo uno scudetto. Visto da sinistra: ha vinto due Coppe dei Campioni, due Supercoppe d’Europa, due Coppe Intercontinentali. Ognuno tira l’acqua al suo mulino. L’antipatia per Sacchi non può e non deve banalizzarne l’eresia del verbo. Eresia che predicò in tutta la sua profondità maniacale con il «primo» Milan, l’harem di Gullit, Van Basten e Rijkaard, Baresi, Maldini e Donadoni. Non in Nazionale. Non a Madrid (sponda Atletico) e tanto meno col Milan bis. Quel Milan lì, e non altri, prese il Real e lo appese al muro di un memorabile 5-0.

Si può sorridere del lessico siliconato che ne ha decorato l’epopea (per esempio: da contropiede a ripartenza); non si devono ignorare i cambi di regolamento. Resta l’idea, massiccia, di una manovra di possesso che stupì il mondo, abituato com’era a bollare the italians di eccesso di contropiede (sempre sia lodato), quando non di catenaccio. Prima Sacchi, poi Capello: a parti invertite, la storia del Milan – e del nostro calcio – sarebbe stata diversa.