Passo avanti

Roberto Beccantini16 ottobre 2012

E’ stata Italia-Danimarca per novantaquattro minuti. Prima e dopo, non poteva e non potrà essere che Juventus-Napoli. Sia chiaro: «non poteva» in un Paese come il nostro, dedito al culto del complotto e allo spaccio del sospetto. Dove lo trovate un presidente (De Laurentiis, Napoli) che telefona a Prandelli chiedendo lumi sugli allenamenti troppo snob riservati ai convocati bianconeri quando la stessa Juventus, dopo la doppietta Bulgaria-Malta, aveva invitato il ct a farli lavorare di più?

Per tacere della staffetta Buffon-De Sanctis, romanzatissima. La partita, quella, è stata scoppiettante, divertente, con le difese, compresa la nostra, alla mercé degli attacchi. Questa volta, sono stati gli avversari ad alzarsi dai blocchi come lo facemmo noi a Yerevan. Se non hanno segnato, merito (anche) di De Sanctis e del torpore aereo di Bendtner.

Piano piano, ci siamo presi la partita. Non sono uno di quelli che sbavano dietro Montolivo, ma dal derby a oggi ha cambiato marcia, raccogliendo i numeri sparsi. Ha 27 anni, è una mezzala camuffata da trequartista: abbasso gli alibi, dipende da lui, solo da lui.

Gol a parte, Balotelli ha martellato ai fianchi i danesi, lavoro dal quale è affiorato il talento che, spesso, i nervi soffocano. E poi il piatto fisso: cross di Pirlo, testa di De Rossi; al Meazza come in Armenia. De Rossi, già: urge un colloquio con Zeman. Anche per Osvaldo, espulso in avvio di ripresa. Era uno degli epurati, scommetto che oggi Zeman avrà meno torto. Il gol di Kvist aveva riaperto la porta, Mario l’ha richiusa. Tornando per un attimo al Pirlo sbuffante: vogliamo parlare del lancio a Balotelli?

Non era facile, in dieci, ma costretta a far la partita la Danimarca si è arresa docile docile. Anche perché la sofferenza è la nostra seconda pelle. E poi perché San Siro è San Siro.

Qualcosa scricchiola

Roberto Beccantini7 ottobre 2012

Il tabellino è la bussola: punizione di Pirlo, sparo di Marchisio. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Alla Juventus, molto ruota attorno al centrocampo. Molto, probabilmente troppo. Non possono pensarci sempre il regista e l’aspirante Tardelli. Il calcio è cambiato, per carità, nel Barcellona il centravanti è diventato lo spazio, ma qui non siamo al Camp Nou. Siena, città simbolo del caso Conte e di altre storie, era una tappa di trasferimento. Normale come tante, viscida come poche. Come volevasi dimostrare.

Erano reduci, i campioni, dal tribolatissimo pareggio con lo Shakhtar. Capisco che, giocando ogni tre giorni, certi ritmi siano insostenibili, ma questa è stata una Juventus che ha giocato troppo al gatto col topo, per finire di essere un micio senza unghie. Se non si chiama presunzione, come si chiama? Ripenso all’attaccante da venti gol sicuri (esiste?) e sorrido. Rivado con la mente alle quattro occasioni che il Siena ha costruito, e dico che da Marassi in poi qualcosa scricchiola.

Mazzoleni è stato fiscale in avvio e, nel prosieguo, generoso con Chiellini. Piuttosto: il gol di Calaiò è arrivato dopo l’espulsione di Cosmi, a conferma di quanto l’importanza dell’allenatore in panchina – che si chiami Conte, Cosmi o Mazzarri – resti materia di studio e giustifichi un dibattito.

De Ceglie ha sofferto gli strappi di Angelo; e la difesa, più in generale, le piroette di Rosina. Se non proprio decisivi, ho trovato «orientativi» i cambi di C & C e il passaggio dal 3-5-2 al 4-3-3. Sembrava una partita della scorsa stagione, quando la pareggite era di casa. Singolare il caso di Pirlo: meno incanta più segna (già tre gol, più una traversa: sarebbe stato il 2-0). Fumo di Vucinic, arrosto di Giovinco, bollicine di Vidal. Non è ancora la Juventus.

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Tanti dubbi

Roberto Beccantini5 ottobre 2012

Gira e rigira, siamo tornati alla richiesta iniziale di patteggiamento, quando però le omesse denunce erano due (Novara-Siena e Albinoleffe-Siena) e non una (Albinoleffe-Siena). Allora, tre mesi più duecentomila euro di multa, concordati con il procuratore Stefano Palazzi e bocciati dalla Disciplinare; oggi, quattro mesi. Dai quindici richiesti e rispetto ai dieci inflitti. Antonio Conte potrà tornare in panchina il 9 dicembre, a Palermo.

Cosa posso aggiungere di nuovo, di inedito? Sapete come la penso: per me, o era illecito o niente. L’iter giudiziario ha imboccato altre strade. Il pentito Filippo Carobbio è stato considerato credibile a metà. Conte «non poteva non sapere»: è vero che ogni caso fa storia a sé, ma il Grosseto, spedito in Lega Pro dal verdetto di secondo grado, ha recuperato la serie B proprio perché il suo presidente, Piero Camilli, «poteva non sapere» che dentro la società, non lontano dal suo istinto accentratore, i suoi Cristian Stellini ne avevano combinate più di Carlo in Francia. Dov’è l’errore?

Naturalmente, i pro e gli anti si scateneranno e si scanneranno. La giustizia sportiva si presta a questo tipo di «pugilato». In pratica, quattro mesi di cui due già scontati sono un buffetto. Nella sostanza, per coloro che allo sport – e al calcio, in particolare – abbinano ancora un briciolo di etica, sono tanti.

Ricapitolando: Leonardo Bonucci e Simone Pepe prosciolti, quattro mesi a Conte. Sono misure che scacciano l’idea del complotto, cara a ogni tifoso quando viene tirata in ballo la squadra del cuore. Da un lato, la caduta del fortino Mastronunzio, dall’altra il patteggiamento di Stellini, che Conte trovò a Bari e si portò a Siena e a Torino (ma a Bergamo, con Cristiano Doni, litigò): sono queste le corde del ring dentro il quale si è boxato senza esclusione di cavilli. Non ho certezze, se non una: Antonio, occhio ai collaboratori.