Dieci anni senza Giovanni Agnelli. E, il prossimo 24 luglio, novant’anni di Agnelli & Juventus (salvo spiccioli attorno alla seconda guerra mondiale). Non saprei quale ricorrenza sia più significativa. La prima celebra il simbolo; la seconda sancisce un rapporto unico al mondo.
L’Avvocato era curioso, tifoso, poco politico. Recitava un ruolo facile, per «grazie» ricevuto, ma lo recitava con stile (e stiletto). Aveva carisma: la qual cosa non significa aver sempre ragione; significa, se mai, aver sempre il rispetto degli altri. Gianni era la regina Elisabetta; Umberto, la Thatcher. Anche per questo è stato più amato, più coccolato del fratello. Aveva il dono, raro, dell’ironia. In cambio di una battuta, gli si perdonava molto; in cambio di un’intervista, tutto. Non gli piaceva perdere ma sapeva perdere. Nei botta-e-risposta era uno sprinter, non un maratoneta come Silvio Berlusconi, che trasforma la domanda in un viaggio.
I suoi amori sono stati Omar Sivori, reclutato da Umberto, e Michel Platini, suggerito a Giampiero Boniperti. Se il papà Edoardo portò la Juventus oltre le polisportive artiginali del primo Novecento, il figlio scolpì la supremazia della società , fino a trasformarla nella bilancia del calcio italiano.
Il potere della Fiat, degli Agnelli, della Juventus serviva per giustificare tutto: ferite e alibi. L’onda migratoria degli anni Sessanta, con la meridionalizzazione della rosa, da Petruzzu Anastasi a Franco Causio, fissò un momento storico. Più sudisti in campo, più sudisti (felici) in fabbrica: si scriveva così, allora.
Dentro una favola che, a sua volta, stava dentro una famiglia battuta dalle tragedie, l’Avvocato ha vissuto la Juventus come una passione e non come un mestiere. Ha lasciato un segno e un sogno che, come ha scritto Giampiero Mughini, continua.