L’Abetino

Roberto Beccantini14 gennaio 2013

La conferma di Giancarlo Abete alla presidenza della Federazione Italiana Giuoco Calcio è come un vino che sa di tappo. Chiami il cameriere e: spiacenti ma non c’è altro. Solo quella bottiglia. Solo Abete. Per carità, siamo il Paese che candida Luciano Moggi alla Camera, siamo quelli che Berlusconi libera tutti. Resta l’atto, dovuto e, dunque, scontato: 94,34 per cento dei voti. Un plebiscito. Il problema non è Abete. Il problema è che il calcio non abbia voluto o potuto esprimere un’alternativa. Certo, la Lega slegata andrebbe abolita, ma insomma: è dal 2 aprile 2007 che ci tocca l’Abetino, faccia un po’ lui (lui, il regime).

Democristiano nel senso più «demo» del termine, 62 anni, ex politico, ex di molto, fratello dell’eminentissimo e influentissimo Luigi, gran navigatore di mari in burrasca, da Calciopoli a Scommessopoli, sconfitto nella caccia agli Europei 2016, coniatore di slogan impegnativi («L’etica non va in prescrizione») e incompetente a tavolini alterni: Abete non è un riformista, è un «formista», aggrappato al cavillo, all’orpello, allo sbadiglio. Leggendario il suo lessico, ritagliato e intagliato su possesso parola, divergenze parallele (Andrea Agnelli & Massimo Moratti). Tutto giace, in attesa che venga quel giorno (quale, di grazia?), dal nuovo codice della giustizia sportiva alla legge sui centri commerciali (che Claudio Lotito chiama, curiosamente, «legge sugli stadi»). Evviva.

Ha confermato Stefano Palazzi per un altro quadriennio, vorrebbe portare la Nazionale allo Juventus stadium («ma non dipende da me», uhm). Neppure Zdenek Zeman si è illuminato d’immenso, a parlarne: «Abete non è mio nemico, ma nemico del calcio». Roma, città aperta (e svelta, quando serve), provvide immantinente alla rettifica.

Giancarlo Abete: sul suo regno non tramonterà mai l’aggettivo.

Sgonfia

Roberto Beccantini13 gennaio 2013

Ventotto punti nelle prime dieci partite, solo diciassette nelle ultime dieci. Non ci voleva un genio per capire che prima o poi la Juventus sarebbe tornata sulla terra: io, però, non ricordo se l’avevo scritto. Era andata in vantaggio, di puro sedere, anche al Tardini: la squadra «pre» natalizia avrebbe tirato giù la cler, la squadra «post» si è lasciata rimorchiare e rimontare. Complimenti al Parma di Donadoni, sempre dentro l’ordalia: con la forza o per spirito di sacrificio. Ci sarà un motivo, se il Tardini resta l’unica rocca imbattuta.

Assenze, riserve non all’altezza, carichi di lavoro, supplementari di coppa: tutto fa brodo. La verità è una, una sola: la Juventus, «questa» Juventus, corre poco e pressa ancora meno. Vive degli strilli di Conte, si ciba di episodi, tutto il contrario della filosofia aziendale. Non morde (ah, Giovinco). E’ grigia, è magra: un pareggio in due gare.

Gran bel cavallone, Belfodil: ha 21 anni e, soprattutto, qualcosa che ricorda Benzema. E vi raccomando Sansone, scuola Bayern, già decisivo con l’Inter. Il suo ingresso è stato determinante, non meno di quello di Vucinic (penso al «velo» errato). Un altro gol preso in contropiede, come il primo di Icardi. Senza la necessità, in nessuno dei due casi, di sporgersi dal davanzale. Con la Samp, si fece bruciare Peluso; col Parma, Caceres. Par condicio. Aperta parentesi: che assist d’esterno, Paletta. Chiusa parentesi.

Il Parma avrebbe meritato la rete nella prima mezz’ora, la Juventus l’ha trovata su carambola e l’ha subìta quando sembrava in controllo. E così il tesoretto se n’è «ito». Da più otto a più tre sulla Lazio e più cinque sul Napoli (con l’asterisco Scommessopoli). Non v’è dubbio che la fase calda della Champions abbia inciso sulla marcia della capolista: il problema è che a febbraio tornerà (la Champions). Si ricomincia, in tutti i sensi.

Lucianone “sul campo”

Roberto Beccantini12 gennaio 2013

Come requisiti, ci siamo.

Tanto per cominciare, l’età: 76 anni il prossimo 10 luglio.
Poi la fedina: radiato dalla giustizia sportiva; condannato a cinque anni e quattro mesi per associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva (primo grado); un anno per violenza privata (appello) nell’ambito del processo Gea, dal quale venne prosciolto dall’accusa di associazione a delinquere.

Un esercito di vedove inconsolabili: frutto, anche, di sentenze sportive che le motivazioni del verdetto penale e la relazione del procuratore Stefano Palazzi hanno confutato allargando l’arco delle responsabilità (all’Inter, per esempio).

L’originalità dello schieramento: «Riformisti italiani», Stefania Craxi, centro-destra (si dice ancora così?), area Pdl, cioè Silvio Berlusconi, colui che, in qualità di presidente del Milan, all’alba di Calciopoli prima lo invitò a Palazzo Grazioli (con Antonio Giraudo) e poi, orecchiata l’arringa di Palazzi, cominciò a invocare la «restituzione» di due scudetti, addirittura, mica solo di uno.

Lo slogan: «Guerra al circo mediatico-giudiziario».

La non competenza specifica che non significa – in Italia, almeno – crassa incompetenza: ex direttore generale della Juventus, grande esperto di mercato, mai fatto politica ma sempre stato un «politico».

La candidatura di Luciano Moggi mi ha strappato un sorriso. Siamo proprio un Paese senza memoria, come ha ribadito, nel suo «Buongiorno», Massimo Gramellini. O con troppa memoria, a volte, visto il ritorno di Giovanni Petrucci alla presidenza della Federbasket, la fionda che, nel 1999, lo scagliò al vertice del Coni.

Insomma: Lucianone «sul campo» come Josefa Idem e Valentina Vezzali. Piaccia o non piaccia. Voto?