In morte del dottor Socrates

Roberto Beccantini4 dicembre 2011

In morte di Socrates, la malinconia scende come una pioggia leggera che affronto senza ombrello, felice di bagnarmi. Era un brasiliano lungo e barbuto, molto tecnico e molto impegnato, molto politico: un Paolo Sollier con i gradi del leader. Beveva come una spugna, giocava di punta e di tacco, aveva un nome chilometrico, da Lascia o raddoppia?: Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira. Aveva, soprattutto, 57 anni.

Gli piaceva vivere tra le folle più che fra le zolle, si poneva sempre di fronte all’ovvio, al sistema. Godeva a essere diverso, quando non proprio «anti». Dottore di laurea, le sue partite non finivano mai al novantesimo. Al contrario: riprendevano, continuavano proprio di lì, fino a invadere gli spogliatoi, come accadde ai tempi del Corinthians, per culminare nell’autogestione e nel rifiuto dell’autorità dell’allenatore. Vista l’imponenza del sacrilegio, venne scomunicato e messo all’indice.

Il gol a Dino Zoff al Sarrià di Barcellona fu uno degli strumenti scelti dal destino per portare la storia in grembo a Paolo Rossi, che già aveva cominciato a frignare. Mondiale ’82, l’estate del nostro «contento». La stagione di Firenze non fece scoccare la scintilla, troppo lontana la sua filosofia del vivere comunque, al di là di moviole e clausure, dai nostri riti tribali, dalla nostra concezione bellico-religiosa del calcio.

Capitan Socrates è stato un rifinitore-pivot, avanzato o arretrato a seconda dei sentieri battuti da Zico o chi per lui; tanto per rendere l’idea, un Ibra più acculturato e flemmatico, meno esplosivo e avido sotto porta. Alta categoria, non altra categoria; vittima del suo personaggio, carnefice della sua persona. Da «Libertà» di Jonathan Franzen: «Non basta sprecare la propria vita per impedirle di passare. Anzi, così passa ancora più in fretta». George Best non la pensava così. E nemmeno Socrates.

Guerra e farsa

Roberto Beccantini1 dicembre 2011

Per dirla con il Fantozzi della Corazzata Potemkin, questo tavolo della pace ha tutta l’aria di essere una «boiata pazzesca». Gianni Petrucci, il padrone di casa, non sa chi invitare anche se finge di saperlo. Il menù prevede un fritto misto di Calciopoli in salsa esotica e ipocrita. Da un lato, il buffet delle associazioni a delinquere finalizzate alla frode sportiva (Antonio Giraudo, Luciano Moggi, cioè la Juventus Football Club); dall’altro, la relazione Palazzi che, senza prescrizione, avrebbe contemplato l’accusa di illecito sportivo per l’Inter di Massimo Moratti e Giacinto Facchetti. In mezzo, i risarcimenti richiesti in sede civile da Andrea Agnelli dopo la sentenza di primo grado di Napoli (Moggi colpevole, Juventus no: un triplo carpiato) e lo scudetto 2006, che Guido Rossi regalò all’Inter e l’incompetenza delle istituzioni federali, piaccia o non piaccia, vada o non vada in prescrizione l’etica, ma forse era l’edera, all’Inter ha lasciato.

Singolare l’ultima uscita di Moratti. A chi gli domandava se avesse pensato di rinunciare alla prescrizione, ha spiegato che al quesito aveva già risposto la procura napoletana, con l’assoluta irrilevanza penale delle «nostre telefonate». Proprio per questo, nei panni di Moratti, avrei rinunciato alla prescrizione e accettato il processo (sportivo): per rispetto di Giacinto e dell’Inter tutta. Cosa avrei mai dovuto temere da banali colloqui o ingenui pissi-pissi? Appunto. A meno che proprio banali o ingenui non fossero.

Quattordici dicembre: il sommergibilista Petrucci a capotavola, poi PilatoAbete e CainoAgnelli, monsignor Moratti, Cappuccetto Della Valle, Galliani senza preservativo (Meani). Sempre che, in extremis, qualcuno non oscarwildeggi: desolato non poter onorare vostro invito per impegno preso successivamente. E prenoti un ristorante più serio.

B contro B, che barba

Roberto Beccantini30 novembre 2011

Che barba. Ancora ‘sta menata di SB contro BS, Silvio Berlusconi contro Bernabeu Santiago: l’uno presidente del Milan dal 1986; l’altro, presidente del Real Madrid dal 1943 al 1978, anno della morte. Non è vero che il Cavaliere, come ha millantato anche in questi giorni, sia il presidente di calcio più vincente di tutti i tempi, Bernabeu compreso. Mi ero occupato dell’argomento il 5 maggio scorso, quando stavo allestendo il blog; ne avevo scritto, così, per allenamento.

Don Santiago Bernabeu Yeste, al quale – da vivo – il Real ha dedicato lo stadio «Chamartin», ha conquistato, complessivamente, 29 titoli. Nel dettaglio: sedici campionati, sei Coppe nazionali, sei Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale. Berlusconi, da parte sua, ne ha raccolti 28: otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega, cinque Coppe dei Campioni/Champions League, cinque Supercoppe d’Europa, competizione il cui battesimo risale al 1972, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club. Per la cronaca, per la storia e per la matematica, gliene manca uno.

Sempre per la cronaca, per la storia e per la matematica ci sarebbe pure Jorge Nuno de Lima Pinto da Costa, 74 anni a fine dicembre, presidente del Porto dal 1982 e firmatario di qualcosa come 55 trofei: diciotto scudetti, dodici Coppe del Portogallo, diciotto Supercoppe nazionali, due Champions League, una Supercoppa d’Europa, due Coppe Uefa/Europa League, due Coppe Intercontinentali. Insomma: nessuno mette in dubbio la competenza calcistica di Silvio B., difesa e diffusa dai suoi cortigiani; in discussione sono, semplicemente, le sue nozioni statistiche.

Fede, coraggio, avanti. Ancora due titoli, due soli, e finalmente Berlusconi scavalcherà Bernabeu. Quel giorno, scommetto che da Arcore si leverà una voce: visto? L’aveva detto, «Lui».

Unto (del Signore) e a capo.