Al ballo dei carnefici

Roberto Beccantini18 maggio 2012

E’ sbagliato spacciare Bayern-Chelsea come la sintesi del calcio grigio, datato, geneticamente inferiore. Al contrario, incarna lo spirito giacobino che, ogni tanto, agita le piazze della Champions, penso a Porto-Monaco del maggio 2004. Lo so, quasi tutti avevamo puntato su Barcellona-Real, il meglio del meglio, l’orchestra di Guardiola contro i cani sciolti di Mourinho, i campioni in carica contro gli sfidanti più agguerriti.

Invece no. E comunque, attenzione: negli anni Duemila, i tedeschi sono alla terza finale, dopo 2001 (vinta ai rigori, Valencia) e 2010 (persa, Inter); gli inglesi alla seconda, dopo 2008 (persa ai rigori, Manchester United). Il bilancio del Bayern sa di convento, tanto è virtuoso; quello del Chelsea, di bordello, tanto non lo è. Mancheranno fior di titolari, tutti squalificati: da una parte, Badstuber, Alaba e Luiz Gustavo; dall’altra, Terry, Ivanovic, Ramires e Raul Meireles.

Con il catenaccio, il Chelsea ha eliminato il Barcellona; con il mordi e fuggi, il Bayern ha escluso il Real. Jupp Heynckes è un vecchio lupo; Roberto Di Matteo, un aspirante camaleonte. Non aspettatevi cartoline struggenti tipo Giuletta e Romeo. Il Bayern gioca in casa e, dunque, avrà il vantaggio della tana e lo svantaggio della pressione. Il Chelsea non ha mai posto limiti alla provvidenza, neppure ai tempi di Villas Boas. Sarà la vecchia guardia, come è successo dal Napoli al Camp Nou, a tirare la storia per la giacca. Drogba, a 34 anni, si trova di fronte a uno snodo epocale: è stato lui a cambiare la stagione.

Che partita immagino: il pullman del Chelsea parcheggiato sulla porta; il Bayern all’attacco, sì, ma con giudizio. Non escludo i rigori. E’ la finale inattesa, ma non per questo – alla vigilia, almeno – sporca, brutta e cattiva. Il popolo aspettava i re; viceversa, troverà i loro carnefici. Dico Bayern, al pelo.

Mi ritorna in mente…

Roberto Beccantini17 maggio 2012

Il lancio con il quale Andrea Pirlo pescò Roberto Baggio il 1° aprile 2001, nel secondo tempo di Juventus-Brescia (1-1). Una parabola strepitosa, come quella di Marco Verratti, il 12 maggio scorso, nel primo tempo di Pescara-Torino (2-0). Destinatario, Lorenzo Insigne. In entrambe le circostaneze, alla precisione delle traiettorie non si può non affiancare la bellezza dello stop a seguire con cui Baggio scarta Edwin Van der Sar verso l’esterno; e Insigne, Francesco Benussi all’interno. La sottomissione del pallone al piede, e non viceversa. Da non confondere, gli stop a seguire, con gli stop a «inseguire» di Pietro Anastasi. Così rapido, così garrulo e scattante da potersi permettere ogni tipo di sgorbio in campo aperto.

** Il caso di Mattia Destro, classe 1991. Era dell’Inter fino al 2010. Insomma: non proprio un riferimento al Medio Evo. Improvvisamente, è diventato metà del Genoa e metà del Siena. Oggi, i giornali scrivono che l’Inter vuole Destro. Non un destro generico, proprio quel Destro lì, che era suo. Voto a Marco Branca, direttore dell’area tecnica?

** La mia griglia estiva. Ne ho azzeccate quattro su venti: le romane (Lazio quarta, Roma settima), e due retrocesse su tre, Lecce diciottesimo, Novara diciannovesimo. Ho sbagliato in pieno la Juventus (sesta) e, soprattutto, l’Atalanta: tra penalizzazioni, possibili code e triboli di pre-campionato, l’avevo collocata all’ultimo posto.

** Lo stress da panchina che portò Arrigo Sacchi sull’orlo di una crisi di nervi. Penso a Pep Guardiola, Luis Enrique, Francesco Guidolin: stanchi, nervosamente spremuti. Per carità, nessuna chiosa populista. Solo un piccolo paragone: dal «tutto esaurito» degli stadi di una volta al «tutti esauriti» dei mister odierni. Si stava meglio quando si stava peggio?

Salutando Godot

Roberto Beccantini13 maggio 2012

Chiedo scusa ai pazienti, ma il passo d’addio di Alessandro Del Piero mi ha commosso. Lo so, non avrei dovuto: soprattutto in questo Paese, così facile alla lacrima, e soprattutto in questo momento, così duro, così teso. Salutando Godot, saluto vent’anni della mia vita, che non sono pochi. Mai dimenticherò quel gol alla Fiorentina: per me, il più bello di tutti. Era il pomeriggio del 4 dicembre 1994: lo inventò, letteralmente, strappandolo dalla nuvola di un cross.

Per una volta, permettetemi di guardare cosa c’è sopra e non cosa c’è sotto: gli applausi, la malinconia, l’emozione; non gli annunci, le interviste, i pissipissi. Giorno verrà. Liberissimo, ognuno, di pensarla come crede: con Ale titolare, la Juventus avrebbe pareggiato di meno e vinto di più; con Ale riserva, Conte ha vinto il campionato. Io la penso così: Del Piero sarà sempre un pezzo di Juventus che mi porterò nel cuore. E con il capitano, do idealmente il cinque a Filippo Inzaghi, Alessandro Nesta, Gennaro Ivan Gattuso, Gianluca Zambrotta, Clarence Seedorf, Marco Di Vaio: compagni di quel lungo e romanzesco viaggio che il calcio incarna e riassume più e meglio di ogni pretesto, di ogni trastullo.

Le bandiere non sono obbligatorie o indispensabili. Aiutano, però, a identificare le squadre, a incanalare la passione. Nel secolo scorso, quando esisteva il vincolo, ne sventolavano molte. Oggi, è più difficile. Resistono Francesco Totti e Javier Zanetti: al di là del tifo, lo sportivo se li tenga stretti. Mancheranno a tutti, come Del Piero.

Per entrare nella storia, bisogna uscire dalla cronaca: sono felice che sia finita così, con lo scudetto al petto e tutto lo stadio in piedi. La perfezione non esiste; lo stile, per fortuna, sì. Alessandro va per i 38, e il futuro, spaccato o aggiustabile che sia, non mi interessa. Mi basta il brivido che ho provato.