La resa dei Conte

Roberto Beccantini4 marzo 2012

Credo di non aver mai illuso il lettore, a costo di passare per gufo e anche se il crollo dell’Inter e le distrazioni europee del Napoli avevano aperto varchi impensati. La Juventus, «questa» Juventus, era al massimo – ma proprio al massimo – da zona Champions. Io l’avevo pronosticata sesta. Il dodicesimo pareggio di campionato, contro il Chievo, ne fissa i limiti proprio nel giorno in cui, a Palermo, Ibrahimovic dimostra e ribadisce come si superano, i limiti.

La differenza è sempre lì, è tutta lì. Spostate lo svedese e la sua squadra balzerà al comando. E’ così da otto anni. Al posto di Agnelli e Conte non avrei armato tutto quel popo’ di casino dopo Parma: la squadra, specie se è stanca (stanca senza coppe europee?) non ha bisogno di alibi, di seccature. Si può sorridere delle «visioni» di Zamparini – una volta, ai tempi di Calciopoli, «chiese» Rizzoli ed ebbe Rizzoli; alla vigilia di Palermo-Milan, ha dichiarato «Perdermo al 95%» – e si può pure serenamente discutere della moviola torinese (gol di De Ceglie in fuorigioco, Dramé da espellere prima del pareggio); resta il fatto che Conte ha smarrito il bandolo, come documentano i quattro pareggi nelle ultime cinque partite. Se in medio stat virtus, nel ceto medio sta il grande problema della Juventus dal ritorno in serie A a oggi.

Conosco i tifosi: non vorrei che, nei confronti di Conte, si passasse da Pirlo a pirla. Sarebbe ingeneroso. Temo che, a livello inconscio, l’imbattibilià freni mosse estreme (una punta in più) o scelte apparentemente blasfeme (una punta in meno in situazioni di fragile vantaggio).

E comunque: da una parte, Ibrahimovic con i suoi 18 gol; dall’altra Matri, Vucinic, Quagliarella, Del Piero e Borriello con le loro 15 reti. Tre gol di distacco, come i punti in classifica. Pura coincidenza? Direi proprio di no.

Il mio regno per un dribbling

Roberto Beccantini1 marzo 2012

Il mio regno per un dribbling. Ci pensavo guardando il nulla di Italia-Stati Uniti. Non uno che cercasse di puntare l’uomo, di sfidarlo, di saltarlo; solo Giovinco, qualche volta e quasi mai con l’arroganza necessaria. Perché sì, il dribbling è anche questione di arroganza: devi servirti dell’avversario senza diventarne servo.

Se il gol è tutto anche quando è stupido, il dribbling è una rima, è un verso: «Ei fu». Il dribbling è scintilla. L’evoluzione/involuzione del calcio l’ha spinto ai margini delle lavagne; in principio fu l’ala, poi il tornante, adesso l’esterno basso o alto a seconda del grado di fantatismo tattico. Oggi, si scivola al di là del difensore attraverso il passaggio, non più attraverso il dribbling, o sempre meno: tanto che Franck Ribéry e Arjen Robben sembrano alieni.

E così, l’umile scriba ferma il tempo e scende: dai tunnel di Omar Sivori («il naufragar m’è dolce in questo mare») a un gol di Sandro Mazzola a Budapest, in Vasas-Inter, un gol pazzesco: mezza difesa scartata e il tiro che non arrivava mai.

Leo Messi, certo. E ieri Diego Maradona e Pelè: troppo comodo, troppo facile. Quello non è più dribbling, è arte del dribbling, è Picasso spalmato e adeguato ai gusti personali. Ricordo una memorabile amichevole di Carlo Dell’Omodarme a Madrid, contro il Real: lessi sul giornale delle finte, degli olé, della spocchia iconoclasta con la quale l’ala operaia aveva domato l’arena, torero per un pomeriggio.

Oggi la Nazionale ringhia (Chiellini), lancia (Pirlo), incorna (Pazzini), ma non dribbla: lo faceva Cassano, ecco. Sul dischetto del rigore, si è soli. Nel dribblare, si è circondati, si è prigioneri. E proprio questo è il bello: liberarsi dei carcerieri, aspettarli, liberarsi di nuovo. In una parola: rischiare.

Zoff, 70 anni

Roberto Beccantini28 febbraio 2012

Oggi Dino Zoff compie 70 anni. E’ stato uno dei più grandi portieri di tutti i tempi, non solo del suo. Friulano di pasta, inglese di stile, tedesco di lamiera: un mix che lo ha portato in cima all’Europa e in vetta al Mondo, sulla copertina di «Newsweek» e fra i denti di un francobollo. Da Guttuso a Gattuso: giocatore, allenatore, commissario tecnico, e persino presidente (della Lazio). Lasciò la Nazionale nel 2000, fresco di argento europeo, dopo un diverbio con Silvio Berlusconi, che gli aveva dato del dilettante per non aver marcato Zidane con un mastino (un Gattuso, appunto) nella finale con la Francia.

Udinese, Mantova, Napoli, Juventus. Soprattutto Juventus, poi allenata con Lazio e Fiorentina. Nessuno è perfetto, e nemmeno lui lo è stato: la sventola chilometrica di Haan, per esempio; non però, secondo Trapattoni, il «tiro gobbo» di Magath ad Atene. In questi casi, i turiboli d’incenso prendono la mano. Sul mio podio ci sono tre portieri: Lev Jascin, Gordon Banks, Dino Zoff. Tutti della stessa scuola. Dino ha sempre privilegiato la persona al personaggio e il prestigio alla popolarità, di cui detesta gli eccessi.

Lontano per indole dal galateo acrobatico di Albertosi, Zoff dava sicurezza anche nella insicurezza che sapeva celare. Ai giovani portieri rimprovera la rinuncia alla presa come una fuga dalle responsabilità: tanti, fra i pali e nella vita, preferiscono rinviare, temporeggiare, deviare, come se avessero paura di bloccare gli attimi, le decisioni. E al diavolo gli alibi: la foggia del pallone, le troppe notturne, le troppe partite. Un muggito vi seppellirà.

Che coppia, e che coppa, con Enzo Bearzot. I silenzi parlanti di Zoff hanno raccontato il Paese meglio di tanti comizi. Un albero dalle radici profonde, solitario e dimenticato. Sarebbe piaciuto a Umberto Saba.