Juve, magari fossero tutti Milan

Roberto Beccantini4 ottobre 2011

Impossibile non celebrare la Juventus che ha sconfitto il Milan; e anche il suo fioretto, non la solita, giurassica, clava. Attenzione, però. Non sono i campioni di turno a fornire il peso netto della squadra bianconera. Sono i Chievo e i Catania, i Palermo e i Napoli. In sintesi, il ceto medio-alto. Non l’aristocrazia. Basta sfogliare i campionati post Calciopoli.

Da Claudio Ranieri ad Antonio Conte, il bilancio con le tre Grandi resta attivo: 3 vittorie, 3 pareggi, 2 sconfitte con l’Inter; 4 vittorie, 2 pareggi, 3 sconfitte con il Milan; 5 vittorie, 2 pareggi, 1 sconfitta con la Roma.

I problemi sono il Napoli, con il quale la Juve ha sempro perso al San Paolo (4 su 4), e il Palermo, capace di infliggerle tre schiaffoni consecutivi a Torino. I problemi sono (furono) gli sperperi con Cesena, Catania e Chievo (da 2-0 a 2-2). A proposito di Milan: nel girone d’andata dell’ultimo campionato, la Juventus di Del Neri il Milan lo aveva battuto addirittura a San Siro, per 2-1. E non era certo un Diavolo così mansueto.

Se l’espulsione di Vucinic spiega il pareggio casalingo con il Bologna, come giustificare la tremarella di Catania? Con il valore dell’avversario, certo, ma la Juve è la Juve, o almeno così dovrebbe essere. O no? O non ancora? Ecco: incassate le iperboli e disperso l’incenso che sempre accompagnano le cene degli affamati, e Dio sa quanto Andrea Agnelli lo sia, Conte deve togliere l’ultima maschera a questa «Signorina» grande con le grandi e piccola con le piccole. Nella serie A a venti squadre, i confronti diretti non incidono come una volta. Decidono, sempre più, le sfide indirette. Non basta sprigionare l’orgoglio represso. Urge una personalità che sappia accendere il gioco. Con gli attributi, servono gli argomenti. La Juve che fa la provinciale contro i padroni, deve tornare padrona contro le provinciali.

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Ma gli scudetti sono ventisette

Roberto Beccantini12 settembre 2011

Bello, il nuovo stadio della Juventus. Molto bello. E suggestivo il battesimo. Molto suggestivo. Di solito, cerimonie del genere si risolvono in pacchiane americanate, ma in questo caso lo spirito ha avuto la sua parte: ed è stata – penso al ricordo dell’Heysel – una parte delicata, commovente. Alla carne e alla pancia del popolo, in compenso, ha parlato il padrone di casa, Andrea Agnelli. Per il presidente, gli scudetti della Juventus sono ventinove. Lo ha ribadito a Gianni Petrucci e Giancarlo Abete. Obiezione, vostro onore: fino a sentenza contraria, gli scudetti della Juventus sono ventisette.

Nessun dubbio che Calciopoli 2 abbia allargato il campo delle responsabilità, coinvolgendo massicciamente l’Inter e portando alle luce clamorose omissioni. Nessun dubbio che, al di là di questa coda, il «tavolino» di Guido Rossi fu, e rimane, una porcata. Le responsabilità di Antonio Giraudo e Luciano Moggi sono, però, fuori discussione. Carta canta: le sentenze della giustizia sportiva. In attesa dei verdetti di Napoli, la Juventus e i suoi avvocati hanno tutti i diritti di contestare, confutare, ricorrere, adire, minacciare. Eccetera eccetera eccetera. Ma gli scudetti sono ventisette.

Credo che ognuno di noi, anche in casa propria, non debba superare certi limiti: di verità, quando non di opportunità o diplomazia. Viceversa, al posto di Agnelli avrei invitato Giraudo, artefice massimo dello stadio, e Moggi. Perché sì, la tribuna (dove mi colloco idealmente anch’io) era piena zeppa di persone e personaggi che, ai tempi d’oro, battevano i tacchi a ogni tintinnìo di Triade e ne reggevano, schiavi felici, lo strascico. La Juventus è nata sulla panchina di un viale, metà Signora e metà puttana. La preferisco alle false suore e ai sedicenti frati che abitano i conventi (?) del calcio.

Ma gli scudetti sono ventisette.

Il rumore dei vigliacchi

Roberto Beccantini15 luglio 2011

Decidere di non decidere. L’incompetenza del Consiglio federale è la sintesi di una classe di dirigenti senza classe (e non solo). A proposito: parlo di una casta che, in occasione del commissariamento della Federsci, ha tirato fuori dal sarcofago una mummia. La solita: Franco Carraro.

Personalmente, non avrei mai assegnato lo scudetto del 2006, così come non fu mai «distribuito» il titolo del 1927. Ciò doverosamente premesso, avrei rispettato qualsiasi decisione, purché tale fosse: Inter, lo scudetto rimane tuo; Inter, restituisci lo scudetto.

Niente, invece. Se non gli immancabili «petardi» di una Juventus che lo avrebbe voluto indietro: una boiata pazzesca. Un conto sono gli aggettivi, e un conto gli attributi. Giancarlo Abete sfoggia quelli e rinuncia a questi. Il presidente si era solennamente impegnato: 1) l’etica non va in prescrizione; 2) niente stampelle (con allusione ai tre saggi, o tre paggi?, che incorniciarono la scelta del professor Guido Rossi). Una persona con una dignità appena appena normale, al suo posto, si sarebbe già dimessa. Non tanto, ripeto, per non aver preso la via che avrei voluto prendesse, ma per non aver preso nessuna via.

L’Italia è il Paese del «campa cavillo». Esperti del ramo hanno detto sì alla revoca, altri luminari hanno detto no. Penso a San Dulli: un gigante, nell’estate del 2006, con la sua corte federale e i suoi fendenti (un solo bersaglio mancato, Carraro: quando si dice il destino); un nano, oggi, che considerava il consiglio «competente».

Un taglio netto, di qua o di là, avrebbe giustificato la saliva dell’invettiva da parte degli sconfitti. E comunque: più rispetto che disprezzo. Parafrasando il rumore dei nemici caro a José Mourinho, la fuga dal verdetto privilegia, viceversa, la saliva dello sputo, che sempre accompagna il rumore dei vigliacchi.