Avvisate Berlusconi

Roberto Beccantini5 maggio 2011

Con tutto il rispetto: non se ne può più. Bisogna che qualcuno si faccia coraggio e glielo dica. E che lui, Silvio Berlusconi, se ne faccia una ragione. Per ora, e sinora, Santiago Bernabeu de Yeste ha vinto di più. Siamo in zona sorpasso, manca poco, pochissimo, giusto che a Milanello abbiano già messo lo champagne in frigo: ma l’aritmetica impone un ultimo guizzo, un estremo scalpo.

Basta far di conto. Il Cavaliere prese il Milan nel 1986. Da allora, ha conquistato 27 trofei, così suddivisi:  otto scudetti, una Coppa Italia, cinque Supercoppe di Lega, cinque Coppe dei Campioni/Champions League, cinque Supercoppe d’Europa, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club.

Dopo esserne stato giocatore e segretario, Santiago Bernabeu diventò presidente del Real nel 1943, carica che mantenne fino al 1978, anno della morte. Il sito societario riporta il seguente bottino: sedici campionati, sei Coppe nazionali, sei Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale. In tutto, per dirla alla Mourinho, 29 «tituli». Ci sarebbe poi l’albo d’oro del Real basket, che sotto la sua gestione sommò diciannove campionati, diciotto coppe, sei coppe dei Campioni e tre Intercontinentali, ma questa è un’altra storia.

Ricapitolando: Bernabeu 29, Berlusconi 27. Questione di giorni e, dopo lo scudetto ritirato a Roma, potrebber arrivare la Coppa Italia,. Per la collezione di Sua Emittenza, sarebbe il francobollo numero 28.  Ad Arcore e dintorni qualche zelante Pigafetta si è portato avanti con il lavoro, dimentico del motto presidenziale: natura non facit saltus. Appunto. Berlusconi reclama, inoltre, uno stadio con il  suo nome. Da vivo, possibilmente: proprio come l’illustre inquilino della Casa Blanca. Voce dal fondo: se lo faccia.

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Tifoso sarà lei

Roberto Beccantini27 aprile 2011

C’era una volta la scadenza «perentoria» del 30 giugno, termine entro il quale o avevi i conti in regola per iscriverti al campionato oppure ciccia. A meno che. A meno che qualche sindaco o qualche capo ultrà non decidesse di bloccare qualche stazione in qualche parte d’Italia: in maniera «perentoria», naturalmente. Se le vie del Signore sono infinite, vi lascio immaginare le vie di Carraro (nel 2005 e dintorni). Riposto «perentorio» nel cassetto, ecco spuntare uno stravagante braccio di ferro attorno ai 200 milioni di euro che le venti società della Lega di serie A si accingono a dividersi. Dovrebbero farlo in base al cosiddetto bacino d’utenza. Traduzione: in base al numero dei tifosi. In condizioni normali, non dovrebbe esserci gara. Ci sono cinque società che, in termini di seguito, staccano le altre quindici: Juventus, Inter, Milan, Napoli, Roma. Neppure il più pignolo ed esigente dei linguisti troverebbe da ridire. Volete mettere i tifosi di Juventus, Inter, Milan, Napoli e Roma con i tifosi del resto d’Italia?

Il problema è che siamo il Paese del «perentorio». E allora cosa si sono inventati Lotito e i suoi amanuensi? L’allargamento del concetto di «tifoso»: la prolunga geografica, la cittadinanza di riserva (se sono supporter della Juventus ma vivo a Verona e sono abbonato al Chievo, per la proprietà transitiva divento tifoso «anche» del Chievo, al quale andrà riconosciuta una piccola quota del bacino d’utenza di cui sopra). E’ nata, così, la figura – o forse il mestiere – del «sostenitore», in antitesi, o quasi, alla professione di «tifoso».

Giù il cappello. O meglio: giù il vocabolario. La stessa Giovanna Melandri, la «ministra riscaldata» che si battè per fare chiarezza (?) sui diritti televisivi, si è ben guardata dal prendere posizione. Nessun dubbio che la vendita dovesse abbandonare il postribolo dell’individualità per abbracciare il convento del collettivismo. Ma «tifoso» e «sostenitore» sono sinomi, non contrari. Qualcuno avvisi Lotito. O gli compri un dizionario.

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Abbasso i pizzini

Roberto Beccantini27 aprile 2011

E se un allenatore squalificato facesse lo squalificato e non l’allenatore? Penso alla camera d’albergo di José Mourinho, ma non solo a quella, e non solo a lui. Mi vengono in mente i telefoni bianchi di sir Alex Ferguson, i pizzini di Mou, i cellulari di tutti quei tecnici che, deportati in tribuna, si credono depositari del verbo in termini così esclusivi da presumere che, senza di loro, non si possa giocare: o, peggio ancora, non si possa giocare bene.

Quando Diego Armando Maradona era infortunato o squalificato, in campo andava un altro. Quando un «mister» ha la luna di traverso, in conferenza spedisce il suo vice. Ecco: gli lasci carta bianca anche in panchina. Hai visto mai? Secondo i perfidi tabloid del Regno Unito, il Real del Camp Nou avrebbe giocato meglio del Real casalingo proprio per l’assenza del Vate. Se il genio incompreso è pericoloso, vi raccomando il genio compreso: è pericolosissimo. Per carità, la storia del calcio è stata ispirata, modellata e scolpita dalle idee degli allentori: nel bene e nel male. Per essere importanti, lo sono. Ma non innalziamoli al rango di entità infallibili. Preferisco una rosa straordinaria e un allenatore normale a un allenatore straordinario e una rosa normale. Traduzione: se mi date l’organico del Barcellona o del Real, mi tengo Del Neri e vi lascio volentieri Guardiola o Mourinho. Voi chiamatele, se volete, provocazioni.

Senza il viva-voce del principale che cosa mai avrebbe potuto suggerire Karanka di così scellerato, di così alienante? Ridurre la figura dell’assistente al ruolo, infimo, di badante mi sembra, francamente, oltraggioso. Si studia insieme la partita e poi ognuno per la sua strada. A maggior ragione se le missioni sono impossibili, come ciancia Mourinho quando gli fa comodo (e De Bleeckere, lui quoque, gli dà una mano annullando a Higuain un gol valido).

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