Crocerossina Catania

Roberto Beccantini5 marzo 2012

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

1) Senza Sneijder, Inter sotto e Ranieri fuori. Con l’olandese, Inter pari e Ranieri salvo. Forse. Progressi di gioco? Datemi un cannocchiale. Fiammate d’orgoglio, sì. E gli episodi: contro (gol in fuorigioco), a favore (papera di Carrizo).

2) Crocerossina Catania: la Juventus ne ricava l’unica vittoria nelle ultime cinque partite; l’Inter, il primo pareggio dopo cinque sconfitte. Date a Montella un portiere normale – non Kosicky, non Carrizo – e il Catania correrà per l’Europa League.

3) Il rigore di Roma-Lazio: giusto assegnarlo, corretto espellere Stekelenburg. Non esiste dire, come ho sentito a «Sky sport 24», il rosso non era obbligatorio, sarebbe bastato il giallo. Proprio sabato, l’International Board ha bocciato la proposta di abolire il rosso diretto in caso di fallo in area che impedisca una chiara occasione da gol: portiere o non portiere. Anch’io ritenevo – e ritengo – sufficiente l’ammonizione. Niente da fare: rigore più espulsione più squalifica. Dura lex sed lex.

4) In alto i calici per l’assistente Petrella. In Lecce-Genoa ha «convalidato» un gol di Sculli dentro di due centimetri. Ripeto: due centimetri. Occhio per occhio.

5) Edy Reja e Mimmo Di Carlo sono allenatori anti-salotti. La Lazio è un inno al made in Italy tattico. Reja, lui, più viene preso di mira, più fa secchi i cecchini. Di Carlo, lo ricordo «fabbro» generoso e magnetico nel Vicenza di Guidolin. Il Chievo visto contro la Juventus appartiene al repertorio di un artigiano raramente vanesio. E come gioca bene quel Bradley.

6) Il Belgio è stato senza governo per 540 giorni e non ne ha risentito. Che dite se abolissimo la Lega calcio? Per me, non se ne accorgerebbe nessuno: nemmeno Beretta. E’ un esperimento al quale tengo moltissimo. Mi date un mano?

La resa dei Conte

Roberto Beccantini4 marzo 2012

Credo di non aver mai illuso il lettore, a costo di passare per gufo e anche se il crollo dell’Inter e le distrazioni europee del Napoli avevano aperto varchi impensati. La Juventus, «questa» Juventus, era al massimo – ma proprio al massimo – da zona Champions. Io l’avevo pronosticata sesta. Il dodicesimo pareggio di campionato, contro il Chievo, ne fissa i limiti proprio nel giorno in cui, a Palermo, Ibrahimovic dimostra e ribadisce come si superano, i limiti.

La differenza è sempre lì, è tutta lì. Spostate lo svedese e la sua squadra balzerà al comando. E’ così da otto anni. Al posto di Agnelli e Conte non avrei armato tutto quel popo’ di casino dopo Parma: la squadra, specie se è stanca (stanca senza coppe europee?) non ha bisogno di alibi, di seccature. Si può sorridere delle «visioni» di Zamparini – una volta, ai tempi di Calciopoli, «chiese» Rizzoli ed ebbe Rizzoli; alla vigilia di Palermo-Milan, ha dichiarato «Perdermo al 95%» – e si può pure serenamente discutere della moviola torinese (gol di De Ceglie in fuorigioco, Dramé da espellere prima del pareggio); resta il fatto che Conte ha smarrito il bandolo, come documentano i quattro pareggi nelle ultime cinque partite. Se in medio stat virtus, nel ceto medio sta il grande problema della Juventus dal ritorno in serie A a oggi.

Conosco i tifosi: non vorrei che, nei confronti di Conte, si passasse da Pirlo a pirla. Sarebbe ingeneroso. Temo che, a livello inconscio, l’imbattibilià freni mosse estreme (una punta in più) o scelte apparentemente blasfeme (una punta in meno in situazioni di fragile vantaggio).

E comunque: da una parte, Ibrahimovic con i suoi 18 gol; dall’altra Matri, Vucinic, Quagliarella, Del Piero e Borriello con le loro 15 reti. Tre gol di distacco, come i punti in classifica. Pura coincidenza? Direi proprio di no.

Il mio regno per un dribbling

Roberto Beccantini1 marzo 2012

Il mio regno per un dribbling. Ci pensavo guardando il nulla di Italia-Stati Uniti. Non uno che cercasse di puntare l’uomo, di sfidarlo, di saltarlo; solo Giovinco, qualche volta e quasi mai con l’arroganza necessaria. Perché sì, il dribbling è anche questione di arroganza: devi servirti dell’avversario senza diventarne servo.

Se il gol è tutto anche quando è stupido, il dribbling è una rima, è un verso: «Ei fu». Il dribbling è scintilla. L’evoluzione/involuzione del calcio l’ha spinto ai margini delle lavagne; in principio fu l’ala, poi il tornante, adesso l’esterno basso o alto a seconda del grado di fantatismo tattico. Oggi, si scivola al di là del difensore attraverso il passaggio, non più attraverso il dribbling, o sempre meno: tanto che Franck Ribéry e Arjen Robben sembrano alieni.

E così, l’umile scriba ferma il tempo e scende: dai tunnel di Omar Sivori («il naufragar m’è dolce in questo mare») a un gol di Sandro Mazzola a Budapest, in Vasas-Inter, un gol pazzesco: mezza difesa scartata e il tiro che non arrivava mai.

Leo Messi, certo. E ieri Diego Maradona e Pelè: troppo comodo, troppo facile. Quello non è più dribbling, è arte del dribbling, è Picasso spalmato e adeguato ai gusti personali. Ricordo una memorabile amichevole di Carlo Dell’Omodarme a Madrid, contro il Real: lessi sul giornale delle finte, degli olé, della spocchia iconoclasta con la quale l’ala operaia aveva domato l’arena, torero per un pomeriggio.

Oggi la Nazionale ringhia (Chiellini), lancia (Pirlo), incorna (Pazzini), ma non dribbla: lo faceva Cassano, ecco. Sul dischetto del rigore, si è soli. Nel dribblare, si è circondati, si è prigioneri. E proprio questo è il bello: liberarsi dei carcerieri, aspettarli, liberarsi di nuovo. In una parola: rischiare.