Ma gli scudetti sono ventisette

Roberto Beccantini12 settembre 2011

Bello, il nuovo stadio della Juventus. Molto bello. E suggestivo il battesimo. Molto suggestivo. Di solito, cerimonie del genere si risolvono in pacchiane americanate, ma in questo caso lo spirito ha avuto la sua parte: ed è stata – penso al ricordo dell’Heysel – una parte delicata, commovente. Alla carne e alla pancia del popolo, in compenso, ha parlato il padrone di casa, Andrea Agnelli. Per il presidente, gli scudetti della Juventus sono ventinove. Lo ha ribadito a Gianni Petrucci e Giancarlo Abete. Obiezione, vostro onore: fino a sentenza contraria, gli scudetti della Juventus sono ventisette.

Nessun dubbio che Calciopoli 2 abbia allargato il campo delle responsabilità, coinvolgendo massicciamente l’Inter e portando alle luce clamorose omissioni. Nessun dubbio che, al di là di questa coda, il «tavolino» di Guido Rossi fu, e rimane, una porcata. Le responsabilità di Antonio Giraudo e Luciano Moggi sono, però, fuori discussione. Carta canta: le sentenze della giustizia sportiva. In attesa dei verdetti di Napoli, la Juventus e i suoi avvocati hanno tutti i diritti di contestare, confutare, ricorrere, adire, minacciare. Eccetera eccetera eccetera. Ma gli scudetti sono ventisette.

Credo che ognuno di noi, anche in casa propria, non debba superare certi limiti: di verità, quando non di opportunità o diplomazia. Viceversa, al posto di Agnelli avrei invitato Giraudo, artefice massimo dello stadio, e Moggi. Perché sì, la tribuna (dove mi colloco idealmente anch’io) era piena zeppa di persone e personaggi che, ai tempi d’oro, battevano i tacchi a ogni tintinnìo di Triade e ne reggevano, schiavi felici, lo strascico. La Juventus è nata sulla panchina di un viale, metà Signora e metà puttana. La preferisco alle false suore e ai sedicenti frati che abitano i conventi (?) del calcio.

Ma gli scudetti sono ventisette.

Il rumore dei vigliacchi

Roberto Beccantini15 luglio 2011

Decidere di non decidere. L’incompetenza del Consiglio federale è la sintesi di una classe di dirigenti senza classe (e non solo). A proposito: parlo di una casta che, in occasione del commissariamento della Federsci, ha tirato fuori dal sarcofago una mummia. La solita: Franco Carraro.

Personalmente, non avrei mai assegnato lo scudetto del 2006, così come non fu mai «distribuito» il titolo del 1927. Ciò doverosamente premesso, avrei rispettato qualsiasi decisione, purché tale fosse: Inter, lo scudetto rimane tuo; Inter, restituisci lo scudetto.

Niente, invece. Se non gli immancabili «petardi» di una Juventus che lo avrebbe voluto indietro: una boiata pazzesca. Un conto sono gli aggettivi, e un conto gli attributi. Giancarlo Abete sfoggia quelli e rinuncia a questi. Il presidente si era solennamente impegnato: 1) l’etica non va in prescrizione; 2) niente stampelle (con allusione ai tre saggi, o tre paggi?, che incorniciarono la scelta del professor Guido Rossi). Una persona con una dignità appena appena normale, al suo posto, si sarebbe già dimessa. Non tanto, ripeto, per non aver preso la via che avrei voluto prendesse, ma per non aver preso nessuna via.

L’Italia è il Paese del «campa cavillo». Esperti del ramo hanno detto sì alla revoca, altri luminari hanno detto no. Penso a San Dulli: un gigante, nell’estate del 2006, con la sua corte federale e i suoi fendenti (un solo bersaglio mancato, Carraro: quando si dice il destino); un nano, oggi, che considerava il consiglio «competente».

Un taglio netto, di qua o di là, avrebbe giustificato la saliva dell’invettiva da parte degli sconfitti. E comunque: più rispetto che disprezzo. Parafrasando il rumore dei nemici caro a José Mourinho, la fuga dal verdetto privilegia, viceversa, la saliva dello sputo, che sempre accompagna il rumore dei vigliacchi.

In ginocchio da Bielsa

Roberto Beccantini16 giugno 2011

Non dubito che Marcelo Bielsa sia un buon allenatore tendente (qualche volta) all’ottimo. Vivacchiava ai margini del nostro lubrìco suk da tempo immemorabile, ma questo, ça va sans dire, non è e non può essere una colpa. Quello che ho trovato francamente sgradevole è l’improvviso inchino dei media italiani non appena il suo nome è stato affiancato a quello dell’Inter.

Poche righe sull’esclusione della sua Argentina fin dal primo turno del rodeo nippo-coreano del 2002 (nonostante un attacco che poteva contare su Gabriel Batistuta e Hernan Crespo); ripeto, al primo turno. E l’avventura africana del suo Cile, schiantatosi contro il Brasile già negli ottavi, celebrata come un’epopea.

L’autopsia del suo 3-3-1-3 ha portato alla luce, in televisione e sui giornali, iperboli, superlativi, orgasmi. Salvo leggere o sentire che, in fase difensiva, arretra i due esterni per proteggere i fianchi dei tre centrali. Wao.

Dicono che abbia rifiutato l’offerta di Massimo Moratti e preferito l’Athletic Bilbao. Fossi negli interisti, ci riderei su. E sorriderei anche di fronte alle note e ai ritornelli impiegati dalla stampa, di regime e non, per cantare le lodi di questo «genio» eccentrico e maniacale. Un tizio che si è fatto costruire un campo di calcio a casa sua e, se gli viene l’ispirazione, usa familiari e famigli come giocatori. Il pensiero corre, leggero e soave, al Fantozzi della «Corazzata Potemkin». Nel dettaglio, a come liquidò, solo contro tutti, il capolavoro di Sergej Ejzenstein. Solo contro tutti, lui. Noi, viceversa, tutti per uno. Un altro film. Il solito.

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