Barcellonissimo, ma…

Roberto Beccantini7 giugno 2011

E’, dunque, il Barcellona la squadra più forte di tutti i tempi? Non ancora. Capisco il sentimento popolare che, ogni settimana, può ordinare al tv-service lo champagne di Messi e il caviale di Xavi. Comprendo l’emozione, fortissima, che capolavori come il 5-0 al Real Madrid in campionato e il 3-1 al Manchester United nell’ultima finale di Champions League agitano nei cuori di noi incalliti guardoni. Non trascuro altresì l’effetto contagio che il dolce stil novo di Pep Guardiola ha contribuito a diffondere: più sui giornali, temo, che non ai campi di allenamento.

Tutto ciò doverosamente premesso, sarà la storia, e non la cronaca, a pesare il Barcellona, «questo» Barcellona. In casi del genere, la memoria, pigra e viziata com’è, tende a ribellarsi ai paragoni. Il grande Torino di Valentino Mazzola, la Honved fulcro della mitica Ungheria anni Cinquanta, il leggendario Real Madrid del quinquennio 1956-1960, la Grande Inter di Helenio Herrera, l’Ajax del calcio totale, il Bayern della tripletta, il Liverpool a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, con Keegan e poi Dalglish a cassetta, il Milan della paranoia sacchiana, La Juventus tridentina di Lippi, il Ferguson United di Manchester: aspettiamo che il Barcellona di Messi si «ritiri», prima di liquidare il passato alla stregua di Jurassic Park.

E’ più forte Pete Sampras o Roger Federer? Bjorn Borg o Rafa Nadal? Gianni Clerici e Rino Tommasi vi si accostano con il pudore degli esperti che, proprio perché tali, sanno di doversi fermare un attimo prima della risposta, e non un secondo dopo. Nessun dubbio che il Barcellona sia ben avviato a lasciare orme memorabili. Non è un modello, e nemmeno una cassa di risparmio. E’ un’accademia delle belle arti, una risonanza per tutte le casse. Fino al 2006, non aveva vinto che una Champions; da Rijkaard e Ronaldinho a Guardiola e Messi ha cambiato marcia e celebrato il Te deum del possesso palla.

Responsabilità oggettiva, per forza

Roberto Beccantini6 giugno 2011

Da Calciopoli 1 e 2 all’ultima puntata del Calcio-scommesse, passando per Bilanciopoli e Passaportopoli, la domanda è sempre la stessa: ha ancora senso la responsabilità oggettiva, in base alla quale tutti pagano per pochi? La risposta è sì, ha ancora senso, e sempre ne avrà.

Sarà pure uno strumento truce, dal momento che una società può essere penalizzata anche per gli atti criminali di un dipendente, uno solo, ma provate a trasferire il calcio, «questo» calcio, il nostro calcio, in un mondo privo di una simile prigione. Io compro un arbitro o un avversario, tarocco una partita e, visto che ci sono, ci scommetto pure sopra; la giustizia sportiva mi pizzica, io pago, la mia società no. Voce del popolo: ma così ci rimettono i tifosi. Vero. Ogni tanto, però, occupiamoci anche degli «altri» tifosi: di quelli, cioè, la cui squadra ha subìto l’oltraggio della combine. I soldi e le tecnologie hanno allargato le tentazioni e accentuato i metodi per barare. Ove non esistesse la stampella della responsabilità oggettiva, il calcio finirebbe in balìa di veri e propri professionisti del dolo, pronti a tutto, e per quel tutto clandestinamente pagati. Fuor di metafora: tu, faccendiere, mi compri la partita e confessi che è stata un’iniziativa personale; io, dirigente, ti offro gli avvocati più agguerriti e l’esilio più dorato. Occhiali scuri, e qua la mano.Sto con Winston Churchill e il suo paradosso: «La democrazia è il peggiore sistema, esclusi tutti gli altri». Calza a pennello: in teoria, la responsabilità oggettiva dovrebbe scoraggiare i lestofanti. In pratica, non esiste alternativa a quel minimo di etica che ogni sport, per gonfio di quattrini che sia, deve garantire ai propri parrocchiani. Va maneggiata con cautela, ma guai a disarmarne la carne e lo spirito, il prezzo e il valore. Sarebbe la fine dell’inizio (degli ennesimi fioretti), e l’inizio della fine.

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Palazzi, il troppologo

Roberto Beccantini5 giugno 2011

Per capirlo, bisogna cominciare dal plurale del cognome. Palazzi. Il singolare, Palazzo, avrebbe avuto tutto un altro senso, tutto un altro impatto. Meglio così, meglio il plurale. Molti, troppi sono i dossier ai quali deve fare fronte, lui, superprocuratore di una Federazione che per presidente ha un albero (Abete) e per poliziotto di riferimento, appunto degli edifici (Palazzi).

Ricapitolo a beneficio del lettore: i miasmi postumi di Calciopoli 2, non lievi e non marginali visto il livello delle telefonate trascurate; l’esposto della Juventus per la revoca dello scudetto revocato e consegnato, a tavolino, all’Inter; la radiazione pendente sul capo di Luciano Moggi & Antonio Giraudo (non solo loro, ma soprattutto loro) da qualcosa come cinque anni, diconsi cinque; l’inchiesta di Premiopoli, tesa a stabilire, come ha ricordato Fulvio Bianchi sul sito di «la Repubblica», se vi siano state certificazioni o autocertificazioni false a coprire i rimborsi per i «premi di carriera e preparazione» dovuti ai club dilettantistici; buon ultimo, il marcio dell’ennesima Scommessopoli (alla quarta puntata, se non sbaglio, dopo l’edizione del 1980, la replica del 1986 e la coda del 2004).

Ecco: tutto questo «mal» di Dio è nelle mani di un uomo solo al comando: Stefano Palazzi. Non sarebbe il caso di dargli una mano e/o affiancargli qualche spalla, posto che le scadenze della giustizia sportiva devono essere – o almeno dovrebbero – frenetiche, efficaci, immediate? Giro la domanda ad Abete e, per la proprietà transitiva del tentennamento, a Petrucci. Già il dottor Palazzi non risulta un modello di velocità (quando non «sente» l’argomento, peggio per l’argomento); se poi aggiungiamo il castello di decisioni che lo attende, poveri noi.

Il tempo stringe Palazzi, Palazzi stringe il tempo: anche questo, se vogliamo, è un referendum.

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