Di governo e di lotta

Roberto Beccantini14 novembre 2024

Non è più l’Heysel, ma per noi lo sarà sempre. Sono passati 39 anni da quel maledetto 29 maggio 1985. Ne morirono 39, sappiamo come, sappiamo perché. Schiacciati dalla furia di hooligans ubriachi. Era Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni. Doveva essere una gara. Diventò una bara. Ogni volta che si gioca lì, allo stadio Re Baldovino, e Belgio-Italia si è giocata proprio lì, non si può non ricordare. Non si può non alzarsi in piedi. Per non dimenticare, per non dimenticare mai.

Belgio-Italia, dunque: 0-1 e quarti di Nations League in tasca. Partita di governo per una trentina di minuti, e poi – nella ripresa, soprattutto – di lotta. Sul podio, il rombo di centrocampo: Rovella (all’esordio, vice Ricci: promosso), Frattesi e Tonali ai lati, Barella un po’ qua e un po’ là. Il gol, all’11’, è stato pregevole nell’azione, agevolato da uno sgorbio di De Cuyper e baciato dall’assist di Di Lorenzo (quantum mutatus ab illo) per Tonali, in agguato come uno sparviero.

Sesti nella classifica Fifa, loro; noni, noi. Decimati, i rossi di Tedesco hanno impiegato quasi un tempo per rendersi conto di quello che aveva in testa Spalletti. Quando l’hanno capito, ci hanno provato. E non sono stati nemmeno fortunati: palo di Faes all’84’. Avrebbe potuto raddoppiare in transizione, la Nazionale, con Retegui (gran parata di Casteels), con Di Lorenzo, con Kean. Così come avrebbe potuto pareggiare il Belgio: reattivo, Donnarumma, su Trossard e Openda; capocciata di Big Rom a fil di montante. Lukaku: montagna contro montagne (Buongiorno, Bastoni), fra terra e cielo.

Non è Sinner, l’Italia. Ma non è più l’arrotino debosciato dell’Europeo. E’ giovane: sa dominare, sa soffrire. Virtù che non si elidono. Rispetto alla sbornia tedesca, «Sanluciano» si è corretto. Spazio a un 3-5-1-1 che ha ribadito la validità di un vecchio assunto: conta la qualità del gioco, non la quantità delle punte.

Chi di muro ferisce…

Roberto Beccantini10 novembre 2024

Dalla polvere da sparo di San Siro affiora un pari guerriero che lascia in testa il Napoli e concentra sei squadre in due punti. E’ stata una partita molto fisica, con un primo tempo abbastanza equilibrato e il secondo in mano all’Inter. Anche se poi, al 94’, è stato Simeone a smarrire il biglietto della lotteria.

Migliori in campo, Acerbi e Buongiorno. Due stopper. Inzaghi versus Conte è come una staffetta rovesciata. E Lukaku, fischiato e non più fischiettato, ha offerto le ante al suo passato, limitandosi a rade sponde. Va subito detto che Lautaro e Thuram molto di più non hanno combinato. Al diavolo le rime baciate, naturalmente. Duelli feroci, Gilmour nei paraggi di Calhanoglu, Di Lorenzo-Dimarco e Olivera-Dumfries a verniciare le fasce. Di soppiatto, al 23’, passa ‘o Napule. Corner di Kvara, virgola di Rrahmani, tocco di McTominay. Visto l’allarme anti punte, Inzaghino sguinzaglia i suoi centrali, Acerbi su tutti. Poi, al 43’, la sassata del turco contro Meret, vetrina troppo fragile.

Nella ripresa, Inter all’arrembaggio e Napoli uomo su uomo, senza se e senza ma. Un legno di Dimarco, qualche tuffo di Meret e, improvviso, un rigorino-ino-ino periodico (di Anguissa su Dumfries) che Calha l’infallibile stampa sul palo. Tranquillo: capitò al Pibe, a le Roi, al Divin Codino, al cigno di Utrecht. Temeva, Conte Dracula, le scorie dello 0-3 della Dea. La reazione è stata forte, Politano su Bastoni, difesa a cinque, perché quando ci vuole ci vuole. Ma appena possibile, un’occhiata oltre la siepe. In Champions, l’Inter aveva effettuato un ricco turnover. Il ritorno ai titolari, soprattutto in attacco, non ha lasciato tracce memorabili. Allorché il ritmo diventa foga, ci si aggrappa ai ribaltoni, ai cozzi, alle bolge. Ci sono stati. E a piccole dosi, riecco Lobotka. In definitiva: chi di muro ferisce…

Elementare, derby

Roberto Beccantini9 novembre 2024

Un derby piatto, rotolato noiosamente verso il 2-0 pro Goeba. Un gol per tempo: il primo al 18’, Weah di tap-in, su accelerata di Cambiaso e piede di Milinkovic -Savic; il secondo all’84’, Yildiz di testa, in tuffo, su «cioccolatino» di Conceiçao. Troppa differenza anche così, con la Juventus a costruire dal basso e ostruire dall’alto, tirchia nei tiri, avara di emozioni, e un Toro dominato per metà partita e per l’altra metà dignitoso, sì, ma capace di disturbare Perin, con Sanabria, solo all’88’ o giù di lì.

Veniva, Thiago, dalle fatiche di Lilla e pure stavolta i suoi sono calati alla distanza. Immagino che Vanoli avesse ordinato di far subito quello che è stato fatto – almeno in parte – nella ripresa: più pressing, più coraggio. Ma Sanabria contro Kalulu e Gatti non l’ha mai vista e Vlasic punta larga era una pallina di roulette che il croupier nascondeva tra le mani.

Per uscire dall’ordalia, la Juventus avrebbe dovuto suicidarsi. Locatelli padrone del centrocampo, Cambiaso-Yildiz frecce a sinistra, Vlahovic un po’ così e Thuram un po’ cosà. Occhio a Koopmeiners: non è ancora l’arrosto della Dea, non è più il fumo d’estate. Sei sconfitte nelle ultime sette gare, i granata: esiziale la perdita di Zapata. Con Juric si diceva: li carica troppo. Con Vanoli ho sentito dire: li ha caricati poco. La realtà è l’abisso tecnico. Per quanto Vlahovic non abbia cambi di ruolo, e la rosa non sia all’altezza di quelle di Inter, Napoli e Milan.

Se il braccino corto di Cairo impedisce di sognare, e non è poco, la Juventus di Motta procede a immagazzinare nozioni. Sotto porta stappa di rado champagne, sa essere grigia e barbosa, ma fin qui ha sbagliato solo una partita, con lo Stoccarda. E, in generale, il possesso titilla il mister. Difendersi «con» la palla, oggi; difendersi «senza» palla, ieri. «Creda a me: non creda a nulla»: Leo Longanesi dove sei?
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