Il grande fratellino

Roberto Beccantini2 novembre 2024

Per una ventina di minuti, solo Juventus e molto Thuram, il fratellino di Marcus. Avversari in trincea, gli strappi di Khéphren a tagliarne le linee. Una sventola alta, poi l’autogol di Okoye propiziato da un tunnel e un sinistro in bilico tra palo e schiena. Do you remember il tiro di Kawai Leonard in gara sette di Philadelphia-Toronto del 2019? Ecco. Lo sport mescola sfortune e fortune, dettagli e ritagli.

Il gol ha svegliato gli opliti di Runjaic. Confesso un debole per Thauvin, uno di quei «dieci» di cui immagini sempre la scintilla. Non stavolta. Madama si è ritirata nei suoi appartamenti. Proprio a Udine Thiago aveva preso una gran bambola con il Bologna, e una scorza di allegrismo non è (ancora) reato. Non c’era Danilo. Rientrava Kalulu. C’era Koopmeiners titolare. Weah a destra, Yildiz a sinistra. Da una fase di stanca, verso il 37’, spuntava il raddoppio: da Thuram al turco, destro, palo (sempre quello) e sinistro di Savona, tra gambe protese e destini curiosi.

Vlahovic convogliava omeri e tibie, nella speranza che, così facendo, i compagni in transito potessero trovare golosi pertugi. L’Udinese è squadra pazza, sospesa tra eccessi clamorosi – a Parma da 0-2 a 3-2, a Venezia da 2-0 a 2-3 – ma la Juventus è tornata savia: più gamba, più equilibro, più concentrazione. Visto che ci si ciba di episodi, una spintarella a Gatti portava alla confisca della rete di Davis che, al 52’, avrebbe riaperto il tabellino. Le staffette hanno movimentato l’ordalia, molto fisica, con un sacco di corner offerti da Pajero e c. ai merli delle due torri, Davis e Lucca (da inserire prima, molto prima), la cui traversa ha solcato la cronaca senza mutarla in storia.

Reattivo e molto british, nelle bolge e sulle parabole, Di Gregorio. Non mi è dispiaciuto Yildiz. In contropiede, avrebbero potuto pasteggiare Vlahovic e, soprattutto, Koop, smarcato da Mbangula. Padre tempo gli dia una mano. In generale, dalla rosa, non certo una partitona. Per carità. Ma una risposta.

Il Marco prima dell’euro

Roberto Beccantini31 ottobre 2024

Sessant’anni, oggi. Quando non c’era ancora l’euro ma c’era il Marco. Il centravanti non smette di agitare dibattiti, soprattutto adesso che persino Pep Guardiola, al Manchester City, ha tradito lo spazio per la ciccia di Erling Haaland. E’ un «mestiere» che ha adeguato le funzioni alla tempesta nozionistica del nuovo secolo, carnefice e vittima di lavagne legate alle mode e non solo ai modi (d’impiego). «Fragile» come il titolo della sua biografia, Marco Van Basten accompagnò il ruolo – pur sempre un ruolo di «caccia», misurato sul numero delle prede – a livelli di arte assoluta.

Lo fregarono le caviglie, martoriate da avversari senza scrupoli. Non lo salvarono i ferri dei chirurghi, da René Marti a Marc Martens, che si palleggiarono cartilagini, terapie e illusioni. Operato, ri-operato: un calvario. Si arrese, consegnandosi al destino, il 17 agosto 1995, ad appena 30 anni. La sera successiva si presentò a San Siro, dove Milan e Juventus si sarebbero contesi il trofeo Berlusconi. Ero là, in piccionaia, e al giro d’onore mi alzai in piedi. Il cigno di Utrecht, in jeans e giubbotto di renna, aveva il braccio pendulo, gli occhi mesti, il ciuffo a mezz’asta. Il popolo non sapeva cosa privilegiare: se i tamburi della venerazione o i violini della malinconia. Li alternò, commosso, ricavandone brividi di tormento.

Marco è stato un «nove» e un «dieci», tre volte Pallone d’oro, sbocciato nell’Ajax di Johan Cruijff e vincolato indissolubilmente al Milan di Arrigo Sacchi, il Milan dei tulipani: lui, Ruud Gullit e Frank Rijkaard. Nel calcio moderno è difficile indicare un erede che ne ricalchi lo stile: badano al sodo, vivono di gol (è buono e giusto), all’eleganza del rito preferiscono l’efficacia dell’attimo. Il più vicino è stato Zlatan Ibrahimovic, anche se con i suoi gusti esasperati, metà ballerino e metà gangster.
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Di corto muro

Roberto Beccantini30 ottobre 2024

Uscire dalle sbronze non è mai facile, specialmente se ti trascini e barcolli tra i lampioni del Parma. Il 2-2 dello Stadium, dopo il 4-4 di San Siro, fotografa la staffetta: dal corto muso di Allegri al corto muro di Thiago. Per farla breve: da Bremer-Kalulu a Danilo-Gatti. Già, perché Danilo e non l’ex Milan? Turnover, immagino. Occhio, però, a non esagerare: il capo tribù mancherà fino a maggio, se va bene.

Il Parma di Pecchia è la squadra più giovane della serie A. Due volte in vantaggio (subito con Bonny, di testa) e poi con Sohm, in capo a uno splendido ricamo. Coraggioso, al guinzaglio di un superbo Bernabé. E’ stato in partita sempre, e alla fine ha rischiato di vincere (con Charpentier, disarmato da Di Gregorio, e con Almqvist, un po’ narciso) non meno della Juventus (con le «parate» di Hainaut e Delprato a Suzuki sepolto).

Le reti americane di McKennie (di crapa, su cross di Weah) e, al 49’, dello stesso Weah (innescato da Conceiçao, stile derby d’Italia) avevano trasformato l’ordalia in una mandria di cavalli imbizzarriti. Poco Vlahovic (gol magnato compreso), e quell’Yildiz a rate non mi convince. Un sacco di errori, soprattutto in avvio, e una caterva di Mar Rossi aperti ai Mosè di turno, fossero Man, Bonny o Mihaila. Le bollicine del Portoghesino e gli spiccioli di Koopmeiners (al rientro) hanno cercato di ovviare a una lentezza che invano Cambiaso, con le sue scariche di trasformismo, cercava di mascherare.

Ogni palla persa, o raffinata dagli avversari, un contropiede da apriti Sesamo. Il centrocampo in balia di distanze abissali, nonostante lo stoicismo di Locatelli e Thuram (cresciuto); come se il palleggio del Parma fosse una lingua intraducibile. Imbattuta sì, la Juventus, e pure l’unica: ma sei pareggi in dieci gare. Narrano che «Padre tempo» sia uno specchiato galantuomo. E allora, halma.