Anno «nuovo»?

Roberto Beccantini4 gennaio 2023

Una sassata di Dzeko ha infranto la vetrina del Napoli. E’ la prima sconfitta in campionato e, soprattutto, un risultato che lo tiene in vita. L’Inter ha avuto più fame, ha creato di più, molto di più. L’ordalia è stata vibrante e leale, da Premier, con la capolista che palleggiava sorniona, anche troppo, e gli sfidanti pronti a ghermirla nelle transizioni. Inzaghi ha avuto la partita che voleva; Spalletti no, nemmeno quando attaccava.

Scrivevo di occasioni. Dimarco, subito, poi Darmian, quindi Lukaku, al rientro, e ancora Dimarco (bravo Meret). Di pregio l’azione che ha sbloccato l’equilibrio, introdotta da Mkhitaryan e rifinita dall’indemoniato Dimarco, uno dei migliori con Barella. L’Inter ha avuto il massimo da tutti: anche da Darmian, preferito a Dumfries. Svagato sotto porta (non è il suo mestiere), cruciale nel limitare Kvara e le sue serpentine. Persino Lobotka, di solito padrone del ring, mi è parso in difficoltà fra le gabbie del centrocampo interista. Per tacere di Zielinski.

Dzeko, a 36 anni, ha scolpito la notte. Con il gol, con le sponde, con le ante. Tornava Rrahmani, l’ha perso nell’attimo fuggente che, spesso, seduce la cronaca. Dopo che Calhanoglu si era immolato su Osimhen, i cambi, copiosi, hanno dato un po’ di birra al Napoli, senza però sfigurare l’assetto degli avversari.

Parate di Onana? Di un certo peso, non più di una: su Raspadori, uno degli innesti, a trama ormai sfiorita. E adesso? La classifica, più corta, recita: Napoli 41, Milan 36, Juventus 34, Inter 33. Il tesoretto rimane congruo. Certo, sul piano psicologico, aver stra-dominato fino al 13 novembre e aver perso alla ripresa, può creare qualche problema; non al punto, però, da sabotare le certezze acquisite. L’Inter avrebbe dovuto e potuto chiuderla in anticipo. E’ l’unica che non pareggia mai. Undici vittorie, cinque sconfitte. L’ultimo limite. Non lieve.

Pali e chiappe

Roberto Beccantini4 gennaio 2023

Riecco, dopo le trombe di inglesi, francesi e spagnoli, i rintocchi delle nostre campane, le omelie dei nostri parroci. In attesa che la giustizia faccia il suo corso, la Juventus di Cremona mi è sembrata la solita donna un po’ pia e un po’ birbante che da un lato raccomanda l’anima a qualcosa (per esempio, al fischietto generoso di Ayroldi che ha «invalidato» il gol di Dessers; ai pali di Dessers e di Afena-Gyan) e, dall’altro, strizza l’occhio a qualcuno: a Milik. Fin al 91’ il peggiore in campo e d’improvviso, per una punizione in buca d’angolo, l’hombre del partido.

Mettetevi nelle tasche di Allegri. Sette milioni e mezzo (netti) all’anno, un casino societario che, come la nebbia padana, si taglia col coltello e un’infermeria che tra pubalgie canaglie, pance piene, «fatture» sballate, sembra il Louvre, tante sono le teste (di) che espone. Il braccino corto diventa, a questo punto, motivo di sfottò. Non hanno mai vinto, i peones di Alvini. Palla lunga e pedalare. Ci sta, quando hai Okereke davanti e solo quantità dietro. Avrebbero meritato il pareggio, ma già sento dal loggione insulti e, nella migliore delle ipotesi, singulti.

Madama ha sventolato Soulé (2003), Miretti (idem) e Fagioli (2001): non proprio la meglio gioventù, a essere pignoli, ma una gioventù che si agita e agita. L’argentino conosce un solo giochino (da destra al centro, dribbling, sinistro), ma gli riesce due volte e in entrambi i casi non spaventa il portiere (che, viceversa, si lascerà spaventare dal polacco). Miretti ci prova lontano, come Kostic.

I ritmi sono randagi, i morsi e i graffi vanno e vengono, la Cremo non molla, la Juventus chiede un calcio a piedi che solo il miglior Pep e il miglior Jurgen potrebbero confessare e convertire, forse.
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Pelé, o rei di tutti

Roberto Beccantini29 dicembre 2022

A noi ragazzi infatuati di Sivori, Pelé esplose negli occhi nel 1958, l’anno in cui Omar vinse il primo scudetto con la Juventus. I Mondiali in Svezia, i primi – sul campo – senza l’Italia, eliminata dall’Irlanda del Nord. Ne aveva 17. Partì riserva, finì re. O rei. Per tutti, non solo per il suo Paese. Ci ha lasciato a 82 anni, vegliato e «marcato» dai familiari, a San Paolo: nell’unico ospedale che poteva reggerne la corona e lo strascico, intitolato com’è ad Albert Einstein.

Destro, sinistro, testa: e persino portiere. La perla nera. E quel numero, il numero dieci, che, da fregio, sarebbe diventato teatro. Era nato il 23 ottobre del 1940 a Tres Coraçaoes, nello Stato del Minas Gerais, di umili radici. Il calcio subito, il calcio sempre. Santos, Brasile e la coda a New York, nei Cosmos, perché anche i valori hanno un prezzo che esigono o s’impongono. Fu vicino all’Inter, venne inseguito da Juventus e Milan: erano tempi, quelli, in cui il Sud America guardava l’Europa dall’alto. Ha scritto la storia di un’epoca, quando la televisione era ancora brusio e non fracasso. Ci aiutò a immaginare la bellezza e l’eleganza, i gesti e le gesta. E’ stato il solo giocatore ad aggiudicarsi tre Mondiali, il primo e il terzo da protagonista assoluto; il secondo, in Cile, da «gregario», subito infortunato e troppo presto fuori dai giochi.

Di Messico ‘70 rimangono indelebili tre momenti: la «parata del secolo» alla quale costrinse Banks; la finta spaziale con cui stecchì il portiere dell’Uruguay, Mazurkiewicz, salvo fallire il gol di pochi centimetri; e lo stacco verticale che lo sospinse, nell’epilogo con gli azzurri, a sbriciolare una roccia, addirittura: Burgnich. Certo, non si possono dimenticare i duelli col Trap, uno fin troppo romanzato in Nazionale, dal momento che, acciaccato, Pelé uscì in fretta; e l’altro, verissimo,
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