In morte di Socrates, la malinconia scende come una pioggia leggera che affronto senza ombrello, felice di bagnarmi. Era un brasiliano lungo e barbuto, molto tecnico e molto impegnato, molto politico: un Paolo Sollier con i gradi del leader. Beveva come una spugna, giocava di punta e di tacco, aveva un nome chilometrico, da Lascia o raddoppia?: Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira. Aveva, soprattutto, 57 anni.
Gli piaceva vivere tra le folle più che fra le zolle, si poneva sempre di fronte all’ovvio, al sistema. Godeva a essere diverso, quando non proprio «anti». Dottore di laurea, le sue partite non finivano mai al novantesimo. Al contrario: riprendevano, continuavano proprio di lì, fino a invadere gli spogliatoi, come accadde ai tempi del Corinthians, per culminare nell’autogestione e nel rifiuto dell’autorità dell’allenatore. Vista l’imponenza del sacrilegio, venne scomunicato e messo all’indice.
Il gol a Dino Zoff al Sarrià di Barcellona fu uno degli strumenti scelti dal destino per portare la storia in grembo a Paolo Rossi, che già aveva cominciato a frignare. Mondiale ’82, l’estate del nostro «contento». La stagione di Firenze non fece scoccare la scintilla, troppo lontana la sua filosofia del vivere comunque, al di là di moviole e clausure, dai nostri riti tribali, dalla nostra concezione bellico-religiosa del calcio.
Capitan Socrates è stato un rifinitore-pivot, avanzato o arretrato a seconda dei sentieri battuti da Zico o chi per lui; tanto per rendere l’idea, un Ibra più acculturato e flemmatico, meno esplosivo e avido sotto porta. Alta categoria, non altra categoria; vittima del suo personaggio, carnefice della sua persona. Da «Libertà » di Jonathan Franzen: «Non basta sprecare la propria vita per impedirle di passare. Anzi, così passa ancora più in fretta». George Best non la pensava così. E nemmeno Socrates.
Arriveranno i momenti brutti! E’ sempre successo. Che tra di noi ci sono alti e bassi nella nostra passione è pure vero. Ma da qui a vendere tutti mi pare un azzardo. L’anno scorso anch’io avrei voluto vendere Marchisio. E sa quando? Quando voleva l’adeguamento del suo contratto mentre la squadra giocava male e altrettando faceva Lui! Adesso, mi sto ricredendo: questo Marchisio non l’avevo mai visto giocare così e con questa continuità ! Resta inteso che io sono innamorato della juve, anche quando perde! Leo
Vero. Ma se alla prima o al seconda esperienza negativa, si propone di vendere tutti, povera Juve!
E noi siamo qua a scrivere sempre sulla nostra passione, fottuta passione, caro Roberto, e non ci allontaniamo sia che sia un “Ospedale” o una “clinica” o un semplice “ambulatorio” . Little Lions
Vero.ma quel marchisio la si poteva pensare di venderlo,questo no.
Per comportamenti e immagine dentro e fuori dal campo ne faranno la nuova icona bianconera del dopo delpiero.
Sono troppi, Little Lions, coloro che fanno i tifosi per mestiere. Preferisco quelli che fanno i tifosi per passione.
Sa qual è il colmo, Alex? Può essere che non lo vendano più: di sicuro, avevano pensato di venderlo lo scorso mercato.
Certo la “famiglia” non vive di “amori” e di sentimenti. La famiglia ha speso, per cui un pezzo di pane alla sera a casa devono portarlo se no come fanno ad andare avanti? Come fanno a giustificare le spese se non c’è un ritorno? A volte mi chiedo perchè le illusioni? Che vita magra abbiamo noi tifosi! Leo
Marchisio non lo venderebbero mai.su di lui c’e'un investimento a lungo termine come quello fatto per delpiero.rendera’molto piu’di 50milioni non cedendolo.
Grazie anche lei, mister Alex. Quando se ne va uno di noi, nel senso romantico del termine, non si può far finta di niente. Anche se mala tempora currunt.
Non penserà mica, Little Lions, che se da Manchester arrivasse lo sceicco Mansour con 30 e rotti milioni la famglia lo lascerebbe andare a mani vuote…