Come sottolinea il gentile e sportivo Fabrizio, ci poteva stare un fallo di Morata, nella catena che ha prodotto il raddoppio di Tevez. Non certo, però, la reazione degli svedesi: così isterica da farmi pensare che leggano troppo i giornali italiani.
Era dai tempi di Glasgow che, in Champions, la Juventus non vinceva in trasferta. Ha controllato e/ dominato la partita, complicata come era nei voti e nelle zolle, soprattutto. Campo pessimo e maglie orrende. Fra le parate di Olsen (su Marchisio, il migliore) e la traversa di Morata, il 2-0 avrebbe dovuto arrivare in largo anticipo sulla gazzarra conclusiva.
Il Malmoe aveva vinto e terminato il campionato da un pezzo. L’ha messo sul fisico, ha raccolto dalle mischie la polvere di qualche petardo. Allegri ha promosso il 4-3-1-2, con Vidal (generoso, non creativo) al posto di Pareyra. Gli unici rischi sono arrivati su palle perse in uscita: da Pirlo, in particolare, e poi da Chiellini, da Pogba, dallo stesso Marchisio.
Che proprio Llorente, fin lì tra i più imbottigliati, abbia spaccato l’equilibrio, e per giunta in contropiede, appartiene alle risorse romanzesche e strampalate del calcio. A Malmoe, 2-0 aveva vinto l’Atletico, e 2-0 aveva perso l’Olympiacos. La Juventus è cresciuta nella ripresa. L’ordalia non conteneva il profumo dell’impresa ma il sapore, acre, della coda allo sportello: con il rischio di perdere la pazienza o, peggio ancora, il documento.
Tra un tacco e l’altro, Pogba e Tevez hanno sventato la sindrome Mosca, agitata castamente dalla nemesi. E così, adesso, non resta che Juventus-Atletico. Vincendo con due gol di scarto, primi. Pareggiando, secondi. Sarebbe folle montarsi la testa e buttare via i progressi intravisti già con i greci, a Torino, e nella città che, mai dimenticarlo, diede i natali a un certo Zlatan Ibrahimovic, sempre sia lodato.
Giusto Simenon, le garanzie di un qualsiasi imputato danno la misura dello stato di diritto. Come i sotterfugi per non far rispettare la legge ne danno lo stato di degrado.
Dura lex, sed lex.
Ma quale lex?
Il signorino stava gia cercando di molestare due ragazzine nei bagni. Ricetta persobale: stanza, sedia, tubo di gomma. Esattamente in quest’ordine. Solo attenti a non colpiro alla testa. Perche Fabrizio ha ragione: deve farlo, il carcere. Ma puo farlo anche su una sedia a rotelle. Nessuna tollerenza verso chi causa del dolore.
Ciao Massimo e buon giorno a tutti.
Per quanto odioso e stupido (la stupidità, l’inutilità di un crimine lo rendono ancora più spregevole) non cambierò mai il mio giudizio.
Le garanzie di chiunque devono essere intangibili ed è una questione non formale, che tocca le ragioni più profonde di uno stato di diritto.
E’ un coglione e basta
3 pezzo di merda paga le multe delle quote latte
L’unica cosa che quel tizio dovrebbe avere di garantito é il carcere, e per un bel po’ di tempo. Troppo facile dire poi (immagino l’abbia detto) “volevo solo darle un pugno, non volevo mica ucciderla”. In questi casi é ovvio che l’omicidio non é premeditato, ma nemmeno colposo.
Simenon ciao
Si era parlato tempo fa di garantismo diritti e roba del genere. Ho letto questa cosa dando un’occhiata alle news e allora mi sono chiesto quanto garantisti si debba essere nei confronti di un teppista che toglie la vitaad una ragazza di 23 anni.
In centro.
Buongiorno.
Vado in centri, a fare un Giraudo…
Mi sento un tantino Moggi , speriamo di riuscire a comprare qualche partita.
O , al limite, una escursione Agricola.
Onore al vecchio Billy.
Detto Old Billy fece parte del poker dei magnifici “classe 1939” della Juventus, quattro giocatori che rimarranno sempre nella storia bianconera, per come si sono battuti, per quanto hanno vinto: Castano, Leoncini, Haller e, appunto, Old Billy. Questo soprannome proviene dalla grande ammirazione per Billy Wright, mitico centromediano dell’Inghilterra che sconfisse 4-0 l’Italia di Valentino Mazzola allo stadio Comunale di Torino, il 16 maggio 1948. Billy Wright fu adottato come nome di battaglia da Salvadore: «Potenza del nome, suonava bene, e poi apparteneva ad un gran regista difensivo, un pilastro dell’Inghilterra dei maestri».
Nato a Niguarda, scoprì il pallone all’oratorio della sua parrocchia, come tutti i bambini dell’epoca. Poi fu scoperto dai tecnici delle giovanili del Milan ed in maglia rossonera bruciò tutte le tappe: vinse due Viareggio ed a diciotto anni debuttò in serie A, laureandosi campione d’Italia nel 1959; nel 1960 disputò le Olimpiadi a Roma con la Nazionale e, due anni dopo, centrò il suo secondo scudetto, sempre con i rossoneri. La coppia centrale di quel Milan era formata da Salvadore e da Maldini ed i due si somigliavano parecchio, come stile e modo di giocare; allenatore del Milan era il mitico Gipo Viani, che privilegiò l’esperto Cesare Maldini come libero. Salvadore si ritrovò a fare il marcatore e con le sue qualità fisiche e con i suoi fondamentali, si sentiva sprecato in quel ruolo ed ebbe dunque un concorrente agguerrito in Maldini. Questo dualismo fu risolto cedendo Salvadore, insieme ad un altro terzino, Noletti, in prestito) alla Juventus in cambio di Bruno Mora, un’ala molto talentuosa. Viani, inventore di uno dei primi sistemi difensivi fondato sul libero, era un personaggio di spicco nel panorama del calcio italiano; per giustificare la cessione di Salvadore disse: «Avevamo due paia di pantaloni, Salvadore e Maldini, ne abbiamo dato via uno in cambio di una giacca, Mora. Adesso disponiamo di un vestito completo».
Letto l’articolo, Salvadore gli rispose: «Il ragionamento funzionerebbe, se non fosse che si è tenuto i pantaloni vecchi. Poteva tenersi quelli nuovi da abbinare alla giacca nuova, così avrebbe avuto un vestito veramente bello».
Salvadore era uno dei pochissimi difensori, se non l’unico, che teneva i calzettoni arrotolati sulle caviglie, come Omar Sivori. All’epoca non era obbligatorio portare i parastinchi, a lui davano fastidio e li metteva solo in casi eccezionali. Mostrava gli stinchi nudi agli avversari, senza timore. A volte sembrava brusco, quasi burbero, ma capace di ridere e scherzare su tutto, se c’era da dire qualcosa in faccia a qualcuno, Salvadore non si tirava indietro. Non erano anni facili alla Juventus, anche se c’erano grandi giocatori, come il fenomenale Omar Sivori, ancora capace di fare la differenza, ed un cursore infaticabile come Del Sol.
L’allenatore era Paulo Lima Amaral, già preparatore atletico del Brasile che nel 1958 e 1962 aveva vinto due Mondiali, giocava a zona ed applicava il rischiosissimo 4-2-4, che si trasformava in 4-3-3 in fase difensiva. La coppia centrale della difesa era composta da Castano e Salvadore, che giocavano in linea. Amaral non durò a lungo e, nelle prime giornate del torneo successivo, fu esonerato e sostituito da Eraldo Monzeglio, ex campione del mondo 1938. Dopo Monzeglio arrivò Heriberto Herrera, con il quale Salvadore ebbe un rapporto difficile. Il Ginnasiarca volle utilizzarlo sull’uomo, con Castano battitore, ma Salvadore si ribellò e l’inflessibile Herrera lo mise fuori squadra. Riserva nella Juventus e titolare, come libero, nella Nazionale di Edmondo Fabbri, che lo riteneva un elemento importantissimo. Una situazione veramente comica.
Sandro assicurava che, se avesse potuto tornare indietro, non contesterebbe più Heriberto, l’inventore del “movimiento”, accettando il ruolo: «È un po’ anacronistico dirlo in tempi in cui tutti contestano e, come vanno in panchina, fanno intervenire il procuratore e, magari anche l’avvocato. Comunque, il tempo mi diede ragione».
A fine maggio 1967, Salvadore vinse il suo terzo scudetto, il primo con la Juventus. Fu quello del clamoroso sorpasso sull’Inter, all’ultima giornata. Il ciclo di HH2 toccò il culmine con la semifinale di Coppa dei Campioni persa con il Benfica di Eusebio, la Perla del Mozambico. Sullo slancio, Salvadore ottenne la soddisfazione più bella della carriera, vincendo il campionato d’Europa per Nazioni, a Roma nel 1968. Escluso dalla prima finale con la Jugoslavia, finita 1-1 dopo i tempi supplementari, fu ripescato da Valcareggi per la ripetizione: «Il Commissario Tecnico capì di aver sbagliato qualcosa e corresse la formazione, azzeccando le mosse giuste, dal sottoscritto in difesa, al tandem Riva-Anastasi in attacco. I goal di Gigi e Pietruzzu ci diedero il trionfo. Una notte magica, indimenticabile, con lo stadio Olimpico e l’Italia in delirio».
Nel 1969/70, a causa del declino di Castano, Old Billy divenne capitano e tornò, stabilmente, a giocare da libero. Ebbe piena fiducia da Carniglia e poi da Rabitti, che subentrò al tecnico argentino, dopo un avvio di campionato quasi disastroso. Salvadore ripagò la fiducia con gli interessi, pilotando la Juventus ad una serie di 16 risultati utili consecutivi che misero paura al Cagliari di Gigi Riva lanciato alla conquista del primo storico ed unico scudetto. Un dubbio rigore concesso da Lo Bello, il prncipe del fischietto, per un fallo su Riva, trattenuto per la maglia proprio da Salvadore in mischia sotto porta, dopo un corner per i sardi, fissò il risultato sul 2-2 e permise al Cagliari di tenere la Juventus a meno due punti. Da quella partita il Cagliari del suo condottiero Rombo di Tuono prese la spinta decisiva per volare verso il tricolore.
Quella fu anche la stagione che costò a Salvadore il posto in azzurro, proprio alla vigilia del Mondiale messicano. Aveva già disputato due mondiali ed erano stati fallimentari; è il suo più grosso rimpianto: «In Cile, nel 1962, avevamo uno squadrone fortissimo, in grado di strappare il titolo al Brasile. Sivori, Altafini, Rivera, Maldini, Mora, Trapattoni, Maschio, Pascutti, Robotti ed altri nomi importanti. Eppure, fummo eliminati nel primo turno. A parte l’arbitraggio scandaloso dell’inglese Aston fu una cattiva gestione la causa dell’eliminazione. Come in Inghilterra, quattro anni dopo. Albertosi, Facchetti, Bulgarelli, Rivera, Mazzola, Rosato, Meroni, in una rosa ricca di campioni. Eppure, fummo incredibilmente battuti dalla Corea del Nord, a Middlesbrough, con un goal di un certo Pak Doo Ik. Valcareggi, visionandoli li aveva definiti dei “Ridolini”. Loro risero e noi piangemmo amare lacrime. Ero in tribuna, quel giorno, ma anch’io divenni un “coreano”. Peccato».
Due sfortunatissime autoreti al Santiago Bernabéu di Madrid nell’amichevole con la Spagna, la sera del 21 febbraio 1970, vanificarono i goal di Anastasi e Riva ed indussero il Commissario Tecnico Valcareggi, che come Napoleone voleva i suoi generali fortunati, a non convocarlo per il Mondiale messicano: «Il giorno più brutto della mia carriera. In realtà, feci solo un autogoal, sull’altro non toccai il pallone, ma me lo attribuirono lo stesso».
Fu la 36sima ed ultima presenza dello juventino in Nazionale. La Juventus divenne la “sua” Nazionale. Non saltò mai una partita: «Avessero dovuto pagarmi a gettone, sarei costato un patrimonio alla società».
Non gli è mai piaciuto perdere: come quella volta che andò a segnare il goal del pareggio, al ritorno di Juventus-Milan, decisiva per la testa del campionato, poi vinto: «Aveva segnato Bigon per loro, ma noi non potevamo perdere; continuavo ad andare in attacco, anche per far capire agli altri che non bisognava mollare la presa, finché non è arrivata la palla giusta. No, non si poteva perdere e non abbiamo perso».
Con la maglia bianconera ha disputato ben 449 partite vincendo altri due scudetti nel 1971/72 e nel 1972/73 e giocando anche la finalissima dei Coppa dei Campioni a Belgrado, persa 1-0 contro l’Ajax. Nel 1974, per dare spazio a Scirea, la Juventus gli concede la lista gratuita.
Cominciò l’attività di allenatore, nel settore giovanile della Juventus. Ebbe anche due parentesi con i semiprofessionisti a Casale ed Ivrea, ma la sua passione era allenare i giovani. Qualche anno dopo prese la solenne decisione di trasferirsi, con moglie e tre figlie, in una cascina a Castiglione d’Asti. Sentiva il bisogno di stare all’aria aperta, di vivere nel verde, diventando così un ricco pensionato che ama vivere nel verde e guidare i trattori. Con, nel sangue, la mai sopita passione per il calcio.
Ci lascia nel 2007, in una fredda mattina di gennaio, mentre la sua amata Juventus gioca un insensato, immeritato ed immotivato campionato di serie B. Ma noi lo ricordiamo fiero e senza timore, senza parastinchi e con i calzettoni giù fino alle caviglie, uscire dall’area palla al piede e scendere nella metà campo avversaria per cercare l’assalto decisivo.
Buongiorno a tutti i partecipanti.
Ciao Leo…
3 sei un coglione, non so di che parte d’Italia, ma sei un coglionazzo…