Luis Suarez Miramontes si è spento all’ospedale Niguarda di Milano, dove viveva, consumato da un tumore. Aveva 88 anni, compiuti il 2 maggio. Uno dei più grandi del Novecento. Alfredo Di Stefano lo definì l’Architetto. L’uno, blanco del Real; l’altro, azulgrana del Barça. Eppure amici per la pelle; e per la palla. La Galizia, terra all’estremo nord-ovest della Spagna, ci ha dato due caudilli. Un fuoriclasse, lui; e Francisco Franco, non proprio.
Era gracile, molto gracile, e così il papà , macellaio, lo rimpinzava di bistecche. Giovanili nel Deportivo, non ancora Superdepor, e poi il Barcellona, dal 1954 al 1961. Fra i compagni, campionissimi del calibro di Ladislao Kubala, Sandor Kocsis, Evaristo. E come allenatore, il più influente, un certo Helenio Herrera. Insieme, vinsero 2 Lighe, 2 Coppe domestiche e 1 Coppa delle Fiere. Nel 1961, per la cronaca e per la storia, Suarez disputò la finale di Coppa dei Campioni, a Berna: 3-2 per il Benfica di Bela Guttmann e non ancora di Eusebio. La prima al di fuori del quinquennio madridista. Un ingorgo di pali, alcuni sicuri e altri misteriosi; sui due di Kubala si può scommettere.
Helenio aveva già firmato per l’Inter. Lo segnalò, lo volle a tutti i costi. Angelo Moratti e Italo Allodi glielo portarono al «modico» prezzo di 250 milioni di lire (dell’epoca), cifra che permise ai catalani di arredare e ampliare il Camp Nou. Cominciava un nuovo romanzo. L’era della Grande Inter: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Diventò Luisito. Numero dieci, atipico rispetto agli atipici del ruolo. Nel senso che sapeva fare tutto, anche i gol: un po’ come Michel Platini, citato in un’intervista a Gianni Mura. Nel Barça giocava avanzato e, dunque, segnava di più; nell’Inter arretrò in regia, rampa per gli scatti di Sandro Mazzola e Jair. E, quindi, segnò di meno.
Se Armando Picchi era il capo-capitano del fortino, Suarez era il leader dalla metà campo in su. Non più il grissino galiziano, ma un tipo tosto, che leggeva l’azione prima degli avversari. Elegante nel palleggio, di un destro soave, quasi un violino. Specialità della casa, il lancio lungo. Risorsa, non limite. Con Giacinto Facchetti era il cocco del Mago, ai cui caffè preferiva le tisane (ipse dixit).
Il 1960 gli regalò il pallone d’oro, addirittura: unico spagnolo ad aggiudicarselo. L’anno magico resterà , nei secoli, il 1964. Il 27 maggio, al Prater di Vienna, il trionfo contro il Real dell’amico Alfredo. Era al canto del cigno, ma nel sottopassaggio Picchi continuava a dire, terrorizzato: «guarda questo, guarda quello, guarda il Colonnello (Ferenc Puskas)». Gli replicò, piccato: «ehi, muchachos, siamo qui per batterli, mica per chiedergli l’autografo». Morale: 3-1 con doppietta del Baffo. Il 21 giugno, al Bernabeu di Madrid, la corona europea per nazioni: 2-1 all’Unione Sovietica. E più non dimandare.
Era il classico direttore d’orchestra, tutto bacchetta, orecchio e spartito. Ma se qualcuno faceva il furbo – penso a un malcapitato oplita del Borussia Dortmund – giù botte. Da giovane, il suo idolo era José Luis Panizo, il 10 dell’Athletic Bilbao. Così innamorato da scimmiottarne la pettinatura: finché almeno ha avuto i capelli. Lasciò l’Inter nel ‘70, inviso all’altro Herrera, Heriberto. Lo convocò Ivanoe Fraizzoli, gli disse che, secondo il paraguagio, lui e Mario Corso non potevano giocare insieme. Luisito sorrise: «meno male che è arrivato adesso, sennò avremmo meno trofei». Poi, serio: «presidente, venda me; ho 35 anni, Mariolino 29». Finì alla Sampdoria dell’amico Giovanni Lodetti detto basletta e di un giovane Marcello Lippi. Di quell’estate, amara e incasinata, conservò un rimpianto, forse un rimorso. Prima della Samp si era mosso il Cagliari di Manlio Scopigno e Gigi Riva. Al debutto in Coppa dei Campioni, Scopigno lo avrebbe voluto come timoniere. Declinò l’invito: «probabilmente sbagliai».
Da allenatore non è stato altrettanto bravo. Né all’Inter, pilotata in tre rate, né con la Nazionale spagnola. Si tolse però lo sfizio, e che sfizio, di laurearsi un’altra volta campione d’Europa. Con la Under 21, nel 1986. La finale, all’epoca, era doppia. Avversario, l’Italia di Azeglio Vicini, la covata di Roberto Mancini e Gianluca Vialli, non so se ho reso l’idea. Si imposero le «furiette», ai rigori.
Per un periodo collaborò con l’Inter, ha avuto due mogli e lascia un figlio che fa il biologo a Madrid. Lavorò per un gruppo finanziario messicano che organizzava eventi, «vero com’è vero che in Bolivia a far firmare il contratto a Ronaldo sono andato io» (fonte Gianni Mura). Helenio, imbattibile nella propaganda, lo presentò così: «Ha la velocità di Bicicli, il palleggio di Corso, la forza di Lindskog, il dribbling di Sivori e il tiro di Altafini» (fonte Fabio Monti). Magari esagerò un filo, ma nessuno si offese.
Opinionista in tv, cacciatore seriale di luoghi comuni: «Nel calcio il problema non sono le grandi squadre [con riferimento al tiki-taka del Barcellona di Pep Guardiola, che adorava], ma le loro imitazioni». Era il 2005, quando lo invitarono a scegliersi un erede. Fece un nome. Uno solo: Andrea Pirlo.
non ricordo quale appassionato di calcio mi segnalò, in questo spazio di eccellente disamina tennistica, la giocatrice Ons Jabeur. Chiunque sia stato lo ringrazio, non sono ancora riuscito a seguire una partita intera della suddetta, solo spezzoni, ma ho visionato molti highlight ed ho appena letto che è approdata alle semifinali sconfiggendo la Rybakina. Ecco, preciso, quello è il tennis che piace a me.
Intanto Danilo è in semi.oggi ha vinto una partita molto rognosa,rispetto al passato mi sembra più tignoso,meno propenso a sciogliere.va anche detto che pure lui ha avuto un tabellone molto morbido.
Per i molti appassionati di tennis di questo eccellente spazio di elegante disamina calcistica.
https://twitter.com/elchiringuitotv/status/1679073024954253312
Anche Stanley Kubrick non ha mai vinto un Oscar, e ho detto tutto…
Per il gentile Dyllive.
Sono d’accordo con te, però un premio Nobel può essere visto come un riconoscimento alla carriera. Rimanendo nell’ambito della letteratura, per Kundera ci stava, così come si sarebbe stato per Philip Roth e ci starebbe, ormai da anni, per il giapponese Murakami Haruki. D’altronde è lunga la lista dei non premiati nei vari campi, per esempio Franco Baresi non ha mai vinto il Pallone d’Oro (gradirei, in proposito, una spiegazione dal gentile Beccantini), l’Olanda non ha mai alzato al cielo la coppa del mondo e Lucio Battisti non ha mai trionfato al festival di Sanremo. Non sempre il merito, parola che da qualche tempo va di gran moda, viene riconosciuto. Questo però niente toglie alla grandezza dei personaggi in questione. Poi ci sono i casi umani alla Renato Brunetta che il premio Nobel se lo assegnano da soli (nel suo caso all’economia), ma questi non fanno testo, servono solo per farsi una risata.
Così come djiokovic lo è nel suo ma qui non è un’opzione ma un fatto oggettivo.
Il più grande di sempre è soggettivo,quasi sempre soggettivo perlomeno.
Io l’ho usato per Romita jr e Kundera perche nei rispettivi campi non ho mai visto nessuno al di sopra di loro.
peraltro le parabole di a.agnelli e del cialtrone mi paiono avere diversi punti in comune: entrambi sono partiti bene e, dopo essersi montati la testa, sono finiti male. ho apprezzato tantissimo l’a.agnelli dei primi anni, l’ho visto motivato, cazzuto, orgoglioso e capace di azzeccare le decisioni più importanti. non sono tra quelli che credono che i meriti non fossero suoi, penso piuttosto che col tempo abbia perso la testa, ha sbarellato cominciando a sbagliare praticamente tutto. al cialtrone (pur non essendo il tipo di allenatore che riesco ad apprezzare) riconosco il merito di avere cominciato bene, con la giusta umiltà (ben cosciente dell’enorme botta di culo avuta) e con qualche buona intuizione, poi si è montato la testa, s’è convinto di essere un grande e ha iniziato a filosofeggiare di calcio semplice, circo e corto muso, diventando una sorta di patetica macchietta.
beh, indubbiamente i (troppi) soldi stanno distruggendo l’anima di questo sport, su questo non ci piove. nello specifico nostro, poi, (parlo della juve) c’è tutta una serie di altri fattori che hanno portato ad azzerare qualsiasi forma di entusiasmo o emozione: la delirante gestione societaria degli ultimi anni che ha disintegrato tutto quello che di buono era stato fatto prima, l’uso spregiudicato della giustizia sportiva per colpire solo chi si odia (e noi siamo i più odiati), la remissività della proprietà che, con l’obiettivo unico di salvaguardare le proprie relazioni e i propri interessi (che non coincidono con quelli della juve) non esita a calarsi le braghe umiliando i tifosi, la clamorosa marcia indietro sul progetto di gioco che si era inteso avviare con la cacciata del cialtrone per tornare a una mentalità totalmente anacronistica, stitica e sparagnina che ha distrutto le emozioni (e per inciso anche i risultati).
Non si giudica un autore dai premi Nobel (l’hanno dato anche a Dario Fo, per dire). Così come non si giudica un attore dagli Oscar vinti. Se no Nicolas Cage varrebbe tanto quanto Al Pacino e più di Clint Eastwood e Peter Sellers.