Pelé, o rei di tutti

Roberto Beccantini29 December 2022

A noi ragazzi infatuati di Sivori, Pelé esplose negli occhi nel 1958, l’anno in cui Omar vinse il primo scudetto con la Juventus. I Mondiali in Svezia, i primi – sul campo – senza l’Italia, eliminata dall’Irlanda del Nord. Ne aveva 17. Partì riserva, finì re. O rei. Per tutti, non solo per il suo Paese. Ci ha lasciato a 82 anni, vegliato e «marcato» dai familiari, a San Paolo: nell’unico ospedale che poteva reggerne la corona e lo strascico, intitolato com’è ad Albert Einstein.

Destro, sinistro, testa: e persino portiere. La perla nera. E quel numero, il numero dieci, che, da fregio, sarebbe diventato teatro. Era nato il 23 ottobre del 1940 a Tres Coraçaoes, nello Stato del Minas Gerais, di umili radici. Il calcio subito, il calcio sempre. Santos, Brasile e la coda a New York, nei Cosmos, perché anche i valori hanno un prezzo che esigono o s’impongono. Fu vicino all’Inter, venne inseguito da Juventus e Milan: erano tempi, quelli, in cui il Sud America guardava l’Europa dall’alto. Ha scritto la storia di un’epoca, quando la televisione era ancora brusio e non fracasso. Ci aiutò a immaginare la bellezza e l’eleganza, i gesti e le gesta. E’ stato il solo giocatore ad aggiudicarsi tre Mondiali, il primo e il terzo da protagonista assoluto; il secondo, in Cile, da «gregario», subito infortunato e troppo presto fuori dai giochi.

Di Messico ‘70 rimangono indelebili tre momenti: la «parata del secolo» alla quale costrinse Banks; la finta spaziale con cui stecchì il portiere dell’Uruguay, Mazurkiewicz, salvo fallire il gol di pochi centimetri; e lo stacco verticale che lo sospinse, nell’epilogo con gli azzurri, a sbriciolare una roccia, addirittura: Burgnich. Certo, non si possono dimenticare i duelli col Trap, uno fin troppo romanzato in Nazionale, dal momento che, acciaccato, Pelé uscì in fretta; e l’altro, verissimo,
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Buon Natale a tutti i pazienti

Roberto Beccantini24 December 2022

Gentili pazienti, buon giorno. Grazie per gli auguri di compleanno, grazie per aver scelto questa Clinica, struttura paramedica che, caso unico nel panorama della sanità italiana, non gode di sovvenzioni ma, semplicemente e generosamente, di adesioni (le vostre). Aperta giorno e notte, intitolata a «Cristiano Poster».

A nome mio personale (e di tutto il personale), profitto dell’occasione per augurare a voi e alle vostre famiglie buon Natale e, a chi può, felice anno nuovo. Come pensierino riassuntivo e introduttivo vi dedico la massima di uno dei miei autori preferiti, Javier Cercas:
«Il signor Grau citava sempre un aforisma, mi sembra che sia di Santiago Rusinol: coloro che cercano la verità meritano la punizione di trovarla». (da «Il castello di Barbablù, pagina 31).

Da Diego a Leo, adesso sì

Roberto Beccantini18 December 2022

Da Diego a Leo. E’ una staffetta, non un esproprio. Regale e poi sofferta, all’improvviso, quando sembrava che il traguardo fosse lì, a un dribbling, e l’avversario fuori da tutto, non solo dalla partita. L’Argentina è campione del mondo per la terza volta, e se ha battuto la Francia «solo» ai rigori lo deve al quarto d’ora di popolarità caro ad Andy Warhol che ha invaso Kylian Mbappé.

Non sempre il calcio regala epiloghi così spasmodici, verdetti così meravigliosamente ambigui, trame che premiano i geni (Messi) e i fuoriclasse (Mbappé) ma non dimenticano gli altri, meno famosi ma non meno preziosi. Penso a Montiel, che un rigore procura e uno, quello decisivo, realizza; penso a Kolo Muani, che potrebbe violentare il destino proprio al 138’ o giù di lì e invece sbatte sulla trave di un portiere, Emiliano Martinez, un altro che sa uscire dall’ombra quando serve; e alla lotteria dei penalty servirà ancora.

Il bello è che per 80 minuti non c’era stata partita. La stava dominando l’Argentina. Con la Pulce che pennellava, con Di Maria recuperato ai suoi livelli, con De Paul che seminava Rabiot, con Romero e Otamendi che frustavano i pigri bracconieri di Deschamps. Una sciocchezza di Dembélé su Di Maria offriva a Messi un rigorino comodo, il quinto in sette partite (poteri forti, direbbero in Italia). Il 2-0 scaturiva da un contropiede folgorante, con il capitano a orientarne il senso sino all’assist di Mac Allister e al tocco di Di Maria, l’hombre delle finali.

Ecco. La Francia pascolava orrida e sterile. Ci si interrogava straniti: l’influenza? la banalità dei pronostici? i ricordi della Grandeur? Segni di vita, zero. Tanto che, già al 41’, Didier ricorreva al bisturi: fuori Giroud e Dembélé, dentro Kolo Muani e Thuram. Cominciava, la ripresa, come se nulla fosse successo.
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