Con il cuore in coda

Roberto Beccantini10 September 2022

Un dicembre fa, Napoli-Spezia finì 0-1. Questa volta, 1-0. Il gol lo segna Raspadori, all’89’ o su di lì, quando ormai Spalletti si era pentito di non averlo sostituito. Raspa è un giovanotto che ha idee: le coltivi e diventeranno talento. Il turnover post Liverpool non ha impedito di giocare a una porta sola. Sono proprio queste, le frazioni più insidiose: vengono dopo i tapponi e nascondono chiodi. Scritto che Gotti ha fatto di tutto per non farsi imprigionare nella riserva, e tra una mischia e l’altra stava pure per riuscirci, resta il doppio tunnel di Kvara. Il classico gesto fine a noi stessi: per fortuna.

Per 70 minuti, il Toro spaventa un’Inter ancora confusa, con troppi difensori e poche idee. Tanto che il migliore è Handanovic, portiere a ore. Poi, negli ultimi 20, cala: e l’Inter tenta il tutto per tutto. Lo spirito di Lautaro, le energie dai cambi (a differenza di quelli granata) e lo schema Brozovic: marcato, non incide; allora si butta nello spazio e detta il lancio (come nel derby). Barella, fin lì nuvola grigia, lo pesca al bacio e il croato, di punta, brucia un dormiente Ilkhan (ah, le staffette). Il minuto, come al Maradona, è l’89°. Inzaghi scende dal rogo. Nel Toro, spiccano l’abilità di Vlasic, scarto della Premier, e l’assenza di un «nove»: mai che Cairo dia retta a Juric.

Soffre anche il Milan, a Marassi. Ma perché, d’improvviso, la soluzione diventa il problema. Leao, fionda del gol-lampo di Messias e poi, in avvio di ripresa, espulso per cumulo. Salterà il Napoli. Pareggia, la Samp, con Djuricic, ma un mani-comio di Villar, colto dal Var, offre a Giroud il rigore del 2-1. I doriani metteranno a referto una traversa di Djuricic e un palo di Verre. Ci provano fino alla fine, ma come se l’uomo in più fosse un freno. Fabbri dirige a spanne. Il Milan, che per un tempo aveva dominato, chiude ringhiando. Resistere, resistere, resistere.

Napoli padrone, Inter schiava

Roberto Beccantini7 September 2022

Il Napoli appende il Liverpool al muro della sua storia. E’ la fase a gironi e non sarà sempre così, d’accordo. Ma al Maradona è andata così. Pronti-via, avanti tutti, palo di Osimhen, poi rigore di Zielinski (braccio di Milner), altro penalty (Van Dijk) che lo stesso Osimhen si fa parare da Alisson. Mica è finita. Gomez continua a combinarne di tutti i colori, raddoppia Anguissa dopo triangolo con Zielinski, esce Osi ed entra Simeone, smarcato da Kvaratskhelia (che si era bevuto Gomez, ma va?): tre pere in 44’ (più una «parata» di Van Dijk sul georgiano, a porta vuota). Tu chiamale, se vuoi, erezioni. Alla ripresa, ancora Zielinski, di scavetto, e Luis Diaz a giro.

Ci sono notti in cui gli attimi non finiscono mai e restano magici, anche quando la palla la recuperano gli avversari. Spalletti dispone di uno scultore (Anguissa, sarà il migliore) e di un pittore (Kvara) nascosto tra i lazzi e i vezzi estivi di noi uomini di poca fede. Klopp cerca di scuotere una squadra depressa, dalla pancia piena e il ruttino facile. Firmino latita, Salah non trova varchi, il centrocampo, rabberciato, pompa poco e male, Alexander-Arnold e Robertson, attesi al varco con ferocia, sono fionde ridotte a cianfrusaglia. Luis Diaz, ecco: sarà l’ultimo ad arrendersi.

L’avvio-sprint permette al Napoli (anche di Kim e Olivera, di Lobotka e Di Lorenzo, ma pure di Meret e Politano: di tutti) di ritrarsi senza ritirarsi. Infastidito dal solletico dei rivali, agita per rappresaglia un’arma che la profondità di Osimhen e i pennelli di Kvara rendono letale. Il contropiede. Il primo a sapere che già in Premier i Reds non se la passavano bene, era Spalletti: anche per questo, o proprio questo (tutti ventre a terra e arroganza zero), è saltata fuori questa polveriera di partita. A volte, il titolo più calzante e graffiante resta «banalmente» il risultato: Napoli quattro, Liverpool uno.
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Spiragli oltre Mbappé

Roberto Beccantini6 September 2022

Il Paris scorre placido come la Senna. Poi, d’improvviso, diventa le cascate del Niagara. Succede quando la palla arriva a Kylian Mbappé. Al 5′, schioppettata di destro su tocco dannunziano di Neymar (ciao Bremer); al 22’, ancora di destro, su una magistrale azione che ha coinvolto Verratti e Hakimi. Allons enfants.

La Juventus, soprattutto nel primo tempo, è ancora il rubinetto dal quale, goccia dopo goccia, si narra che, nella Foresta Nera, sarebbe nato il Danubio. Campa cavallo. Le mancavano colonne quali Pogba, Chiesa e Di Maria. Rientrava Bonucci. Era il battesimo in Champions, non certo la cresima. Troppa differenza di qualità. Sinceramente: cosa ci si poteva aspettare da una squadra che non impone il gioco alla Sampdoria e, per 45’, non tira con la Fiorentina? Che battesse l’orchestra di Mbappé, Messi e Neymar, più Verratti, Hakimi eccetera? E per giunta a Parigi. Suvvia.

Eppure, alla ripresa, sono emersi piccoli spiragli, sono affiorati brandelli di gioco attorno a Paredes, uomo sodo, e agli esterni. Allegri era partito con un 5-3-2 da inverno siberiano e solo in un caso, con Milik, aveva sfiorato il pari. Che riflessi, Donnarumma. Poi fuori Miretti (sono notti, queste, che lo aiuteranno a crescere) e dentro McKennie. Un po’ più di personalità, persino di coraggio (mais oui): e un 4-4-2 spurio che, con Vlahovic e Milik, creava problemi al palleggio lezioso del Saint-Qatar. Proprio il texano, di testa, firmava l’1-2 su errore del Gigio.

L’ordalia si consegnava a equilibri dignitosi, la Senna era un po’ meno scroscio, il rubinetto un po’ più rigagnolo. Potevano pareggiare Vlahovic e Locatelli, potevano dilagare Mbappé e Neymar in contropiede. Una cosa che non avrei fatto, nei panni di Max, è la staffetta Milik-Locatelli, per un 4-3-3 molto sulla carta e molto poco sul campo, anche se dalle fasce qualche cross pioveva. Ha riportato indietro le lancette dell’audacia: e avanti le visioni
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