Umiliati e (nemmeno) offesi

Roberto Beccantini9 May 2021

La Juventus di Udine senza i «biglietti» di Cristiano. Morale: tre a zero del Milan allo Stadium. E niente di clamoroso. Non sarà più brillante come all’andata, il Diavolo, ma resta una squadra. La Juventus è invece sempre quella: un infinito e sfinente torello all’indietro. Il 6 gennaio, a San Siro, l’aveva decisa Chiesa, schierato a destra. Al rientro, Pirlo l’ha piazzato a sinistra: mah. La Juventus non ha perso solo per questo, il Milan non ha vinto solo per questo. C’è molto altro. Pioli aveva preferito Brahim Diaz a Rebic: lo spagnolo gli ha dato il primo gol (con la complicità di Szczesny), un rigore (parato dal polacco a Kessié) e un su e giù fra le linee che creava problemi non lievi ai vecchi della tribù (Chiellini, per esempio, al terzo penalty procurato).

Non che i campioni non abbiano attaccato: all’inizio dei due tempi, soprattutto, con Donnarumma reattivo su Bentancur, ma si vedeva lontano un miglio che le coppie di difesa (Kjaer-Tomori) e di centrocampo (Kessié-Calhanoglu) erano «troppo» per Cuadrado, spossato da Theo Hernandez, addio regia occulta, per McKennie, ora qui ora là, Rabiot, ora là ora qui. Il Milan aveva un senso, la Juventus no: anche perché i piedi, nei momenti topici, diventavano ferri da stiro, e non uno che azzardasse il lancio, le poche volte che la punta lo dettava. Non Morata: triste, solitario y final.

E Cristiano? Ai margini, perché ignorato e perché scazzato. Il Milan ha aspettato. L’infortunio di Ibra, prezioso ancorché fermo, ha sguinzagliato Rebic, autore dello splendido raddoppio. Poi Tomori di testa, alla grandissima. E così Madama va sotto persino nei confronti diretti: complimenti. In sostanza: la «solita»Juventus, sempre diversa e sempre uguale. Vuota, monotona, come se qualcuno avesse avuto fretta di spegnere le rare luci scampate al corto circuito. Qualcuno chi? La società (con la menata della Superlega), Pirlo, i giocatori. Il tempo stringe, Elkann sempre più vicino e la zona Champions sempre più lontana.

Citius! Altius! Fortius!

Roberto Beccantini5 May 2021

Più veloce, più feroce: il Chelsea di Tuchel lascia al Real di Zizou quel torello orizzontale che sta al calcio moderno, ormai, come un salottino a una piazza in rivolta e si prende tutto il resto, la partita, il risultato, la finale di Champions. Uno a uno a Madrid – e già, all’inizio, un quarto d’ora da sballo – due a zero a Stamford Bridge. Complimentissimi.

Gli esperti ci spiegheranno perché il Paris Saint-Qatar ha segato questo tedesco che lo aveva portato alla «bella» con il Bayern, persa – anche – per le parate di Neuer. Io non ci arrivo. La partita, adesso. Avete presente una gara di cento metri? Ecco: uno sprinter puro, il Chelsea, si è trovato di fianco un ottocentista, il Real di Modric, Kroos e compagnia bella. Kanté, Mount, Werner e poi, nella ripesa, Pulisic se li sono letteralmente mangiati.

Se escludiamo due grandi parate di Mendy su Benzema, non ricordo altro, nell’area british. Viceversa, Courtois e Valverde hanno evitato gol sicuri: e non pochi. Tuchel ha lasciato che fosse il Real a sentirsi padrone. L’ha lavorato di contropiede, soprattutto nel loft di Militao e al centro. Si è sbloccato Werner, ho colto in Havertz (classe 1999) tracce di un possibile Eldorado, ho apprezzato il repertorio di Mount, del ‘99 pure lui, autore del raddoppio. E fra i grandi vecchi della difesa, meglio Thiago Silva, 36 anni, di Sergio Ramos, 35.

Zidane avrebbe avuto bisogno del miglior Hazard, non di questo, dal dribbling ancora ingessato. Poteva segnare chiunque, nel Chelsea. Solo Benzema, nel Real. E già questo è un confine non lieve. Il 29 maggio a Istanbul, dunque, Manchester City-Chelsea. E’ il secondo derby inglese nel giro di due anni, dopo Liverpool-Tottenhm 2-0 del 2019. Te la do io, la Superlega: firmato, Superpremier.

Dirigeva Orsato. Testimone, non protagonista. Meno male.

Pep, certo. E poi Icardi

Roberto Beccantini4 May 2021

Sarà la prima finale del City un miliardo di euro dopo, la prima del Pep lontano da Messi. E’ storia, dunque, e non semplice cronaca. La Champions ha sempre fame. Il Paris Saint-Qatar si arrende all’assenza di Mbappé e alla presenza Icardi, né spazio né centravanti, ignorato da Neymar e mai in grado di comunicare con la terra ferma.

Due a uno al Parco, 2-0 all’Etihad. La doppietta di Mahrez, già a segno all’andata, racconta della lontananza che separa Guardiola dall’immunità di gregge che spesso concediamo al nostro esperanto. Primo gol: lancio del portiere e contropiede diretto. Secondo: azione alla mano De Bruyne-Foden e contropiede indiretto. Chapeau. Con la difesa francese bivaccante a metà campo.

La grandine aveva trasformato il prato in un tappeto di chiodi per fachiri, subito Paris, subito Mahrez, la traversa di Marquinhos, le scosse di Di Maria, il bucato di Verratti, le discese di Florenzi. E il mistero Icardi. Il City ha giocato di squadra e quel Ruben Dias ha murato un sacco di tiri. Il Paris ha giocato «di» Neymar, solo contro troppi. Il rosso a Di Maria ha chiuso i giochi, così come, la settimana scorsa, li aveva chiusi il rosso a Gana Gueye.

I vent’anni di Foden (un assist, un palo) continuano a deliziarmi. Con la palla al piede non è mai una palla al piede. Il Barça di Messi, Iniesta e Xavi era più totalizzante e difendeva così alto da sembrare sempre all’attacco. Il City di Gundogan è più vario: se c’è da barricarsi si barrica. Occhio, però: appena può, scatena i suoi veltri. Dimenticavo Zinchenko, classe 1996, faccia tosta e sinistro filante. Ha scalzato Joao Cançelo.

Il City era il mio favorito e, a maggior ragione, lo rimane. Mbappé e Neymar avevano portato Pochettino oltre il Bayern. Altra storia, con Icardi al posto di Mbappé. Come diversa sarà la storia di Roma con due pontefici e non più uno, papa Francesco e papa José.