Arrosto di Londra

Roberto Beccantini9 March 2023

Serviva personalità, non un’impresa. Lo 0-0 di Londra non appartiene alle barricate di una volta, quando le squadre italiane si asserragliavano nella propria area, in Dio sperando. E’ figlio di una Maginot elastica, che ha disarmato gli Spurs più di quanto immaginasse l’astuto Pioli. Milan nei quarti, dunque: undici anni dopo. E Tottenham fuori.

Sotto la pioggia, Conte non sembrava nemmeno Conte. Le scomparse di Ventrone e Vialli, i problemi alla cistifellea lo hanno come anestetizzato. E se non sbraita, difficile che le sue fiere possano surrogarne il silenzio della frusta. Son non è più lui da un pezzo, Kane bettegheggia lontano dalla porta, Kulusevski è un mono-schema (rientro e cross), Romero un mazzolatore che il doppio giallo ha correttamente espulso dalla trama proprio quando i suoi cercavano di raschiare il fondo del Brasile (Richarlison).

Per cadenze e pathos non pareva neppure una recita di Champions. Poche occasioni, e comunque tutte pro Diavolo, fino agli ultimissimi biglietti della lotteria: tuffo di Maignan su incornata di Kane, palo di Origi. L’1-0 di San Siro, firmato Brahim Diaz, si è rivelato scudo piccolo ma solido. Pioli ha avuto tutto da tutti – da Thiaw e Tomori a Theo e allo stesso Diaz – tranne che da Leao, le cui partite sono ormai schizzi e non più disegni. Sia vicino a Giroud, sia a sinistra.

C’è poi la storia. Che non gioca ma scorta. Il Milan, al di là di coloro che ne interpretano il momento, può scrivere un libro. Il Tottenham, no. E non si parli del k.o. di Bentancur: troppo poco, come alibi. Da una parte, il coraggio di aver (ogni tanto) paura, ma mai la paura di aver coraggio. Dall’altra, processioni sterili, senza il becco di un sussulto.
Leggi tutto l’articolo…

Dall’orgia di Anfield ai pali Mancini

Roberto Beccantini5 March 2023

Svuotato come una vescica dal 7-0 del Liverpool al Manchester United – e senza più Cristiani Ronaldi a garantire alibi (e non più albi) d’oro alle lavagne di ten Hag – mi sono accostato a Roma-Juventus con i rutti vulcanici di un Gargantua. «Il calcio, scriveva Gianni Brera, è logico, sì: ma solo a posteriori».

Traslocare da una cascata di adrenalina a damigiane d’oppio aiuta la pennica. L’Olimpico pieno e la partita vuota, ritmi da struscio, tra Dybala ondeggiante e Di Maria bordeggiante. Eppure la locandina recitava Mourinho, sospeso dalla sospensione, contro Allegri: i pontefici massimi della chiesa «gestatoria».

Volatine di Spinazzola, spuntini di Kostic. Mou aveva rinunciato ad Abraham, con Wijnaldum incursore (molto in teoria). Il centrocampo era una selva oscura. Un tiro dell’Omarino deviato da Szczesny, gli inserimenti dei mediani dall’altra parte. Saltuari e velleitari, tranne uno: testa di Rabiot, su cross di Danilo, piede di Rui Patricio e palo. Dal taccuino: un tempo di noia moraviana, come se avessero ingessato le squadre.

Alla ripresa, non poteva non succedere qualcosa. Difatti. Mentre Madama giochicchiava, un destro di Mancini (ossimoro) squarciava il nulla: 1-0. Non meritava di perdere, la Vecchia, né la Lupa di vincere, se consideriamo anche il palo (esterno) di Cuadrado, su punizione, e l’auto-legno del Mancio. Tre in tutto. Come i difensori: troppi. Mou alzava un muro spesso, salvo togliersi lo sfizio di chiudere con Abraham e Belotti. Volava Rui Patricio su Di Maria (ops), Szczesny su Smalling. Entrava Chiesa, il cui ruolo di «giovane Altafini» mi sembra francamente un lusso. Vlahovic era prigioniero di tutti e di tutto, a cominciare da sé stesso. Pogba era la carta dell’azzardo estremo. Il rosso di Kean, un atto di isteria allo stato puro.

Calcio lento e antico, con Mou vittorioso per corto muso e lunghe chiappe, la specialità del rivale. C’era una volta.

Davide e i suoi Golia

Roberto Beccantini4 March 2023

Sono già cinque anni. Davide Astori morì, di cuore, la notte del 4 marzo 2018 in una camera d’albergo a Udine. Ne aveva 31. Era il capitano della Fiorentina. Era un pezzo di pane che il ruolo di difensore costringeva a essere di ferro. Quando scocca il minuto 13, il numero di maglia che portava, il Franchi si ferma. Caschi il mondo. Applausi e tutti in piedi.

La ricorrenza ha coinciso con la sfilata del Milan. Da lassù, l’avrà seguita e ne avrà sorriso, fiero: 2-1 per i suoi Golia. Nella ripresa, i gol: Nico Gonzalez su rigore (netto, di Tomori su Ikoné); Jovic, di crapa, al culmine di un gran contropiede e un gran cross di Dodò, tra i migliori con Amrabat, Cabral, Igor, Nico e Terracciano; quindi Theo Hernandez, di forza, agli sgoccioli degli sgoccioli.

Partita tosta, bella vittoria: con Italiano in cattedra a disegnare calcio normale, cioè moderno, e Pioli a rincorrere il Diavolo che le aveva date alla Dea. Mancava Krunic; mancava, soprattutto, Leao. Quando c’è, lo manderesti spesso a quel paese; ma quando non c’è, uhm. Sono dettagli, come gli impegni in agenda (Sivasspor, Tottenham): ognuno ne faccia l’uso che crede.

Sino al 49’, Fiorentina al dente: padrona del ring. E Milan tristemente a rimorchio, salvato dai tuffi di Maignan e dalla spaccata di Tomori (su Bonaventura). Poi, un quarto d’ora vintage dei campioni. E qui bravo Terracciano su Giroud e Theo. Dalla panchina sono usciti Jovic e un bouquet di pesi massimi: Ibra, Origi, Bakayoko. La scossa l’ha data il «medio» serbo. Di De Ketelaere mi sovvengono tocchi vaghi: eppure giocava nel suo ruolo, da trequartista. Di Tonali e Junior Messias, ancora meno.

Era reduce da tre successi, il Milan. E dal rotondo 3-0 di Verona, la Viola. Sull’1-0, per la cronaca, il Var ha salvato Di Bello dal linciaggio. Aveva colto un mani-comio di Cabral e decretato un penalty pro Milan. Era testa, invece. Evviva il doppio arbitro.