Vox populi

Roberto Beccantini5 March 2025

Quando una voce ci lascia, chissà perché verrebbe voglia di urlare. Bruno Pizzul avrebbe compiuto 87 anni l’8 marzo, il giorno delle mimose. Era nato a Udine, viveva a Cormons, è morto a Gorizia, laureato in giurisprudenza e senza patente, la moglie Maria detta «Tigre» che ne marcava stretto le nuvole di fumo, i tre figli, gli undici nipoti, una carriera piena.

Avendo giocato a calcio – mediano di Catania, Ischia e Udinese, prima che un grave infortunio a un ginocchio gli spezzasse i sogni – non aveva bisogno di invaderlo per raccontarlo. E così fece. E così fu.

Entrò in Rai, per concorso, nel 1969. Battesimo, uno spareggio di Coppa Italia tra Juventus e Bologna nell’aprile del 1970. Arrivò che si era già al 16’ (ma per fortuna, sarebbe andata in differita): si narra, per un pranzo con Beppe Viola, che lo definiva «la persona più buona del mondo». Giovani del Web, in piedi: Bruno era colto e misurato, attributi oggi in disuso, e ha accompagnato la Nazionale dal 1986 al 2002. Era all’Heysel, quel maledetto 29 maggio 1985 («Il ricordo più angoscioso»), e fu la colonna sonora delle pupille di Totò Schillaci e delle notti magiche (meno una) del 1990. Amico di Enzo Bearzot, friulano come lui, e Azeglio Vicini ha preso sul serio il mestiere senza prendersi sul serio.

Guardava (quasi) tutti dall’alto per via del suo 1,93, non certo perché si dava delle arie. Polisportivo di commenti, dal canottaggio al pugilato e al tennis da tavolo, è stato attore e testimonial. A Milano abitava in via Losanna, non lontano da casa mia. Ci si incontrava di rado, ma ogni volta era come un rubinetto aperto, via con i ricordi, i paragoni, gli aneddoti. Con le statistiche e i numeri intratteneva rapporti formali. Non era un Tir che investiva il telespettatore. Era Pizzul. «La tradizione non è il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco». Ciao, Omone.

Per gioco

Roberto Beccantini3 March 2025

Impossibile, dimenticare l’Empoli. Una verguenza. Doveroso, viceversa, ripartire. Con il popolo che ringhia, con il rumore degli «amici», con i vaffa a Thiago e a manca. Vieni al sodo: si dice, di solito, in questi casi. Ci vengo: Juventus due, Verona zero. Quinta vittoria di fila e, per Brio (mi raccomando: ho detto Brio), una partita piena. Certo, il Verona è il Verona, allenatore squalificato e peggior difesa (contro la migliore). Però, obiezione, anche il Cagliari era il Cagliari; il Parma, il Parma; e il Venezia, il Venezia.

E’ qua, solo qua, la differenza. Se escludiamo i tiri di Suslov e Sarr all’inizio, e lo splendido gol di Suslov, annullato per fuorigioco di Faraoni (do you remember? il destino dà, il destino toglie) al 45’ + 2’, Madama ha dominato. Letteralmente. Non è mai uscita dalla trama. Nonostante gli errori (e Nico). Ha costretto Montipò ad almeno sei parate d’autore: soprattutto la prima, su Thuram. Il francese, ecco: titolare e ancora a segno, dopo mercoledì. Ma la notizia è il gol di Koop, uno dei cambi: come Mbangula, il «servitore», e Alberto Costa, omonimo del grande giornalista del Corsera. Costretta agli arresti domiciliari dal piglio della Goeba, l’Hellas ha acceso ceri al suo portiere. Ceri che, fino al 72’, avevano funzionato.

Tra le righe: Yildiz un po’ meno prigioniero della fascia (si può, allora?), Locatelli più avanzato, le sponde di Kolo, i blitz di Cambiaso. E il ritorno di Kalulu. In generale: atteggiamento padronale e, udite udite, rivoli di bel gioco, magari non sempre baciato da una mira all’altezza. In più, dettaglio non marginale, un’adesione della «fabbrica» che ha scacciato complotti e scioperi. L’importante è non fare gli italiani: e non traslocare dal fiele più efferato al miele più sdolcinato. Domenica arriva la Dea: e lì si parrà la nobilitate di molti.

Il fuoco di sant’Antonio

Roberto Beccantini1 March 2025

Tel chì il Billing, classico menù da 10 euro. E’ lui, nigeriano di sangue e danese di scelta, a firmare il più stragiusto degli 1-1. Philip Billing, entrato in corso d’opera e imbeccato da Lobotka, con Okafor e Ngonge, le giugulari di riserva del Conte Dracula. Era l’87’, e l’Inter stava vincendo dal 22’, grazie a una punizione, splendida, di Dimarco: proprio là, nella porta che – contro Madama – Diego deflorò con il suo infinito mancino.

Dopodiché, l’ordalia si è come sparata a una tempia. Il fuoco di sant’Antonio ha spinto ‘o Napule all’arrembaggio, andasse come andasse. I campioni di Inzaghino si sono piano piano ritirati dalle parti di Martinez. D’accordo, gli infortuni di Calha, di Dimarco, lo smalto grigio di Thuram, l’assenza di alternative tra gli esterni. Per questo, ma non solo per questo, un gran casino tattico: a quattro, a cinque, Dumfries dove?

C’era una volta Kvara. E non c’erano Anguissa e Neres. Però che grinta, che cuore, che gambe. Che Lobotka. E che Lukaku. Non è da tutti costringere la capolista al catenaccio, come nella ripresa. Bastoni, su Lukaku e Politano, ha «parato» non meno di Martinez. Per tacere di Dumfries su Ngonge. Mi ha colpito, nei risvolti della trama interista, la penuria di contropiedi. E questo, non esclusivamente dopo l’ingresso di Correa. Sembravano tarantolati, i napoletani; e gli avversari, dal casto Lautaro a Barella, incatenati ai guanti del portiere, allo scudo di Acerbi e, in generale, a un bloque bajo di novecentesco amarcord.

Non credo che lo 0-0 dell’Atalanta abbia condizionato la sfida. C’è chi non ha coppe e chi sì, e questo era uno snodo scudetto. E allora, gattopardescamente: cambiare tutto per non cambiare niente. Mancano undici giornate. Favorita, in barba agli ingorghi dell’agenda, rimane l’Inter. Dimeticavo: tackle ispidi, speroni bollenti, zero ammoniti. All’inglese. E honi soit qui mal y pense.