Squali

Roberto Beccantini16 December 2024

Dura mezz’ora, la Lazio di Baroni. Frizzante nel gioco, dal panorama piacevole: una cartolina. Le mancano Romagnoli e Castellanos, l’occasione capita a Noslin, un tiraccio. Poi si fa male Gila. Entra Gigot: farà male. L’Inter comincia da lui, e dal rigore (braccio alto, a murare Dumfries) che Calhanoglu trasforma. E’ il 41’. Agli squali di Inzaghino non sembra vero. Il raddoppio coinvolge Calha, Dumfries e Dimarco, sinistro volante e schioccante.

Esce Gigot, il detonatore involontario, ed entra Lazzari. Coppia centrale, Patric-Marusic. Emergenza dell’emergenza. L’onda lunga non si placa: il terzo è di Barella, destro dal limite, splendido, su tocco del turco. Poi Dumfries, di testa, sopra Nuno Tavares (binario triste e solitario). La manita la cala, in bello stile, Carlos Augusto, una riserva, imbeccato da Dimarco. L’Aquila non vola più da un pezzo. E, giusto al 90’, ecco la ciliegiona di Thuram, in un presepe allo sbando.

Morale: 6-0. E in trasferta, per giunta. E con sei marcatori. Sia chiaro: in agosto, avevo «iscritto» i duellanti a campionati diversi, ma i Lotitiani stavano offrendo un calcio capace di sedurre molti pulpiti, moltissimi polpastrelli. Dicesi crollo, in gergo. Verticale, assoluto, mortificante. L’Inter risponde, così, ad Atalanta e Napoli; e replica con un «set» che, immagino, non passerà inosservato. Aggrapparsi alla dieta di Lautaro fa sorridere. Hanno segnato tutti (gli altri), ciascuno a modo suo: dettaglio che non può non rendere orgoglioso il pilota.

Dal martedì grigio di Leverkusen al lunedì esplosivo dell’Olimpico, non esattamente lo stesso film. E balla sempre il recupero di Firenze. Gli applausi a Mihajlovic avevano battezzato la sera. I tricche-tracche dei campioni l’hanno solcata, scolpita e suggellata. Direi che può bastare. O no?

The Italian(o) job

Roberto Beccantini15 December 2024

Nel primo tempo avrei scommesso su un gol della Viola. Nel secondo, sul 2-0 del Bologna. Invece: 1-0. Che partita, ragazzi, che rumba. E per questo, non una gioielleria ma un rodeo in cui si faceva fatica a distinguere il cavallo imbizzarrito dal cowboy. Prendete un tagliacarte e tranciate in diagonale, da sinistra a destra, un foglio di giornale. Avrete il lancio di Castro per Dominguez, rampa del passaggio a Odgaard, lesto nell’anticipare Dodò e trafiggere De Gea. Santiago Castro, argentino, classe 2004: non proprio Zirkzee, ma un topolino che lo scimmiotta, arretrando per sguarnire le garitte altrui. Benjamin Dominguez, argentino, classe 2003: non proprio Orsolini ma un’aletta che dribbla come si usava nei campetti di periferia, i «potreros» di La Plata.

Immagino la gioia di Italiano, tre finali di coppe con la Fiore. Non c’era Palladino (è mancata la mamma, gli siamo vicini), c’era il suo vice, Citterio. Otto vittorie consecutive e questo stop: ci sta. Per metà gara, Dodò e Colpani hanno spinto la destra al governo, salvo flettere alla distanza (tipico). Kean ha impegnato strenuamente Beukema e Lucumi. L’ex Gobbo ha mutato registro: non più un biglietto della lotteria, ma un robusto mazzetto.

L’infortunio di Ndoye ha liberato Ferguson. La mossa ha cementato il centrocampo costringendo Adli e Cataldi – play di vocazione – a straordinari fachireschi. Il palo di Castro, i tiri di Pobega e Odgaard, il gol, l’esterno destro di Castro per Holm (una sciagura, la mira): dal tabellino emergeva una tendenza netta che le staffette e l’orgoglio dei rivali non avrebbero scalfito.

Un attimo primo dell’episodio-chiave, fuori Gudmundsson – la cui posizione, ambigua, qualche problema lo aveva creato – e dentro Sottil. «Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare», disse Churchill. Che, sotto sotto, tifasse per Balanzone?

La crisi degli «imbattibili»

Roberto Beccantini14 December 2024

Un velo pietoso. Costretta a fare il Manchester City, la Juventus sbatte contro il Venezia ultimo che fa la Juventus. Morale: non 2-0 ma 2-2 e fino al 94’ addirittura 1-2, non fosse stato per un braccio di Candela e il rigore di Vlahovic (almeno quello). Attaccare, parola grossa. Che in panca ci sia Thiago o Hugeux, stante la squalifica del principale, Madama proprio non ci riesce (più). Tanti, i motivi: se in difesa l’impronta dell’allenatore può abbastanza, in avanti può meno. Ma sul ritmo, ecco il crinale, potrebbero esserci indicazioni più turgide. In parole povere: più tuoni che languori.

Di Francesco non avrebbe rubato nulla. Sotto di un «corner» (da «Flopmeiners» a Gatti, via Thuram), da quel momento al diavolo le barricate, i sospiri, i se e i ma. Traversa scheggiata da Andersen, «parata» di Thuram su Busio, mentre Madama pascolava e traccheggiava. Senza Locatelli, con McKennie in zone ambigue, Vlahovic nella giungla di Altare e c., Yildiz nella Siberia della fascia.

D’accordo, le ruggini di Champions, ma di fronte non è che ci fossero dei marziani (con tutto il rispetto). Il problema è che, non appena prova a impugnare la partita, le sfugge. Ha paura dell’alta velocità. Teme di non essere in grado di reggerla. Salvo prendere entrambi i gol a difesa schierata. Lo zelo con cui aveva battezzato la ripresa è stato rintuzzato dal pareggio di Ellertsson – di testa, su cross di Zampano – e, casino facendo, dal sorpasso di Idzes, sempre di cabeza, in anticipo su Gatti, da una punizione di Nicolussi Caviglia. In mezzo, un paio di petardi del serbo, una gran palla di Douglas Luiz chi? (sì, lui), le bollicine di Conceiçao, l’ingresso di Nico, qualche mischia e i fischi del popolo. Sino al cambio di «Flop» (una Ferrari tenuta in garage, una Ferrari obbligata ad andare ai venti all’ora o non proprio una Ferrari?) e alla mano di Dio.
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