Di corto muro

Roberto Beccantini30 October 2024

Uscire dalle sbronze non è mai facile, specialmente se ti trascini e barcolli tra i lampioni del Parma. Il 2-2 dello Stadium, dopo il 4-4 di San Siro, fotografa la staffetta: dal corto muso di Allegri al corto muro di Thiago. Per farla breve: da Bremer-Kalulu a Danilo-Gatti. Già, perché Danilo e non l’ex Milan? Turnover, immagino. Occhio, però, a non esagerare: il capo tribù mancherà fino a maggio, se va bene.

Il Parma di Pecchia è la squadra più giovane della serie A. Due volte in vantaggio (subito con Bonny, di testa) e poi con Sohm, in capo a uno splendido ricamo. Coraggioso, al guinzaglio di un superbo Bernabé. E’ stato in partita sempre, e alla fine ha rischiato di vincere (con Charpentier, disarmato da Di Gregorio, e con Almqvist, un po’ narciso) non meno della Juventus (con le «parate» di Hainaut e Delprato a Suzuki sepolto).

Le reti americane di McKennie (di crapa, su cross di Weah) e, al 49’, dello stesso Weah (innescato da Conceiçao, stile derby d’Italia) avevano trasformato l’ordalia in una mandria di cavalli imbizzarriti. Poco Vlahovic (gol magnato compreso), e quell’Yildiz a rate non mi convince. Un sacco di errori, soprattutto in avvio, e una caterva di Mar Rossi aperti ai Mosè di turno, fossero Man, Bonny o Mihaila. Le bollicine del Portoghesino e gli spiccioli di Koopmeiners (al rientro) hanno cercato di ovviare a una lentezza che invano Cambiaso, con le sue scariche di trasformismo, cercava di mascherare.

Ogni palla persa, o raffinata dagli avversari, un contropiede da apriti Sesamo. Il centrocampo in balia di distanze abissali, nonostante lo stoicismo di Locatelli e Thuram (cresciuto); come se il palleggio del Parma fosse una lingua intraducibile. Imbattuta sì, la Juventus, e pure l’unica: ma sei pareggi in dieci gare. Narrano che «Padre tempo» sia uno specchiato galantuomo. E allora, halma.

Il Conte Max

Roberto Beccantini29 October 2024

Lontano dal circo di Inter-Juventus 4-4, il Conte Max lascia il possesso a Fonseca e si prende il risultato, che non sarà tutto ma siamo lì: Milan-Napoli 0-2. E la capolista se ne va. C’era una volta Verona. Da quel giorno, il «primo», otto vittorie e un pari. E che non si sappia in giro: la miglior difesa (con Madama). Il Milan era spolpato, tra infortuni e squalifiche: persino Pulisic (sino, almeno, al 62’: quando, ormai, incombeva la sentenza). Si è notato. Al Napoli, mancava «Robotka»: si è notato di meno.

La partita. Dieci minuti made in City, Gilmour, McTominay e Di Lorenzo appendono il Diavolo al muro. E già al 5’, Lukaku: servito da Anguissa, spallata a Pavlovic (peso massimo contro peso massimo, alla vigilia – toh – dei 50 anni di Rumble in the jungle) e jab sinistro. Dopodiché: un passo indietro, tutti, in attesa degli eventi. Il Milan è un aeroporto senza torri di controllo, e con check-in troppo fragili (penso alla coppia Pavlovic-Thiaw). Si protende, attacca, crea vortici, da un paio di errori in uscita ricava golosi pertugi, ma Musah non ha il radar ai piedi.

Morata fa tutto, tranne quello che dovrebbe fare e che nessuno, al suo posto, riesce a fare: il centravanti. E così, naturalmente, raddoppia ‘o Napule: 43’, Kvara (fin lì «anche» terzino, come Politano) molla la fascia, si accentra e, di destro, infila un Maignan non più onnivolante. Georgia al governo.

Gioca, Okafor, come giocava l’ultimo e il penultimo Leao (che entrerà, pure lui, al 62’, materia per l’ennesimo dibattito sulla fuffa). Meret para quello che deve, un ginocchio di fuorigioco cancella, a Morata, il gol della scossa. Il Conte Max, da parte sua, toglie la «Lu-Kva», inserisce Mazzocchi, passa a cinque, sigilla ogni spiffero (fidatevi: il Buongiorno si vede anche dalla sera) e lavora di transizioni. Personalità e solidità. Daranno la colpa a Fonseca. Ci è abituato.

Esausto da Rotterdam

Roberto Beccantini27 October 2024

Elogio della follia: da Rotterdam, Erasmo starà brindando. Da Coverciano, un po’ meno. E fra le nuvole (Brera, Frossi), non vi dico i moccoli. Inter-Juventus 4-4. Il fanciullino pascoliano che è in me sta strillando. Ve la spiegheranno, io non ci riesco. Difese allegre – molto allegre, se è per questo – ma per una volta il derby d’Italia non ha annoiato né avvelenato.

Non si può non partire dal tabellino, bussola indispensabile: 15’, 1-0 rigore di Zielinski (fallo di Danilo su Marcus Thuram); 20’, 1-1 di Vlahovic (bel ricamo Cabal-McKennie); 27’, 1-2 di Weah (da una fuga e toccata di Conceiçao-Garrinchao); 35’, 2-2 di Mkhitaryan (uno-due, splendido, con Marcus); 38’, 3-2 rigore bis di Zielinski (calcio di Kalulu a Dumfries); 53’, 4-2 di Dumfries (da angolo); 72’, 4-3 di Yildiz (palleggio, arresto, tiro); 82’, 4-4 di Yildiz, ancora (da un lancio del Portoghesino).

Al di là delle assenze (pesanti per Inzaghi, pesantissime per Thiago), o forse proprio per questo, è successo di tutto. Ha deciso un turco, sì. Ma non Calha, che non c’era. Yildiz: che è entrato (con Mbangula, fuori Vlahovic: uffa, Motta). Se gioca Danilo (al secondo penalty consecutivo) e Gatti (da capitano alla panca) raccatta solo spiccioli, ci deve essere per forza qualcosa. Perché sì, i resti di Madama sono stati più incisivi e decisivi delle staffette interiste.

Sul 4-2, Di Gregorio ha evitato che l’Inter scappasse oltre: su Dimarco, su Barella. Cinque occasioni, non una di meno. Il confine, eccolo. Una squadra satolla; e una che doveva farsi perdonare l’onta dello Stoccarda. Caduto è un muro (persino Kalulu, lui quoque), non la caccia a un gioco che possa reggere anche contro i pesi massimi (soprattutto se distratti). E mai Madama ha tirato come oggi. Immagino Inzaghino, tradito da Lautoro: il risultato è l’unica cosa che Conte (non è mia, porca vacca).