Gagliardi

Roberto Beccantini12 June 2015

Preferisco le porte chiuse ai mercati aperti. E poi per un tempo Croazia-Italia mi è piaciuta. Nel merito: 1-1 a San Siro, 1-1 a Spalato. All’andata, meglio i croati; al ritorno, meglio i nostri. La Nazionale di Conte ha avuto sempre un senso, anche nei momenti di confusione dettati, in ordine sparso, dal modulo nuovo (4-3-3), il valore degli avversari e i limiti dei singoli (Astori, Parolo, Pellé, a tratti persino Pirlo).

Nel girone, la Croazia resta prima e l’Italia seconda. Non qualificarsi sarà, tanto per parafrasare il Matarrese made in Usa, «impossibilissimo». L’incipit è stato da Cime tempestose: rigore di Mandzukic parato da Buffon, gol di El Shaarawy annullato per quei misteri che troppo spesso «scortano» il calcio; sul ribaltone, rete di Mandzukic su assist di Rakitic. Poi, a speroni ardenti, il penalty-cucchiaio di Candreva, migliore in campo, le occasioni di El Shaarawy e Pellè.

Il rocambolesco trasloco dal gol annullato al gol croato mi ha ricordato una scheggia di Real-Getafe. Era il 2008, si giocava al Bernabeu. Annullata una rete a Robben, i madridisti trasformarono la fiesta in un corteo verso l’assistente. L’arbitro, come il buon Atkinson, non fece una piega. Idem gli avversari, che, nel dubbio della certezza, e non viceversa, andarono a segnare.

Le assemblee di condominio pagano in Italia, meno all’estero. Tra parentesi, l’azione che aveva introdotto il gol del Faraone era stata splendida. Rimane la partita: dignitosa, coraggiosa. Certo, Modric è Modric e la sua assenza pesa. Gli azzurri, però, hanno saputo reagire. Ho colto qui e là il carattere del ct. Da Kovacic, Perisic e Brozovic mi aspettavo di più. Gli sprazzi di Rakitic non sono mai banali. Mandzukic ha portato la croce per un’ora, poi l’ha mollata.

Per concludere, un mondo di auguri a De Silvestri.

Un dibattito, non un monologo

Roberto Beccantini7 June 2015

Tre gol con Messi «normale» in campo: ecco la forza del Barcellona. La Juventus ha dato il massimo. Le serviva la partita perfetta. L’ha trovata per una decina di minuti, dal pareggio di Morata al raddoppio di Suarez. Era stato perfetto anche Buffon, fin lì. Certo, perdere sei finali su otto costituisce un record che avrei lasciato volentieri ad altri, ma nello stesso tempo sono di quelli che preferiscono perdere 3-1 in finale piuttosto che in semifinale.

Sono contento per Luis Enrique, che Roma e il calcio italiano considerarono una macchietta. Da orgasmo l’azione del gol-lampo. Imbarazzante il primo tempo, non il secondo. La squadra di Allegri ha saputo reagire ed è tornata sotto proprio nel momento in cui sembrava in grado di poter rovesciare il destino, rincorso e conteso fino al 94′. Gli episodi, questi «impostori»: da una copula tra Dani Alves e Pogba al morso di Suarez. In contropiede, addirittura.

Ma se guardo alla partita nel suo insieme, non penso a un’occasione persa; se mai, a una lezione sulla quale meditare per avvicinarsi alla cima, oggi ancora lontana. Da Guardiola a Luis Enrique è calato il tiki-taka, non Messi, e neppure la coralità della manovra, comunque più verticale. E poi: Rijkaard, Guardiola, Guardiola, Luis Enrique, quattro Champions in dieci anni. Chapeau.

Ecco: nel 2006, quando il Barça alzava la coppa a Parigi e avviava il nuovo ciclo, la Juventus precipitava in serie B per Calciopoli. La partita di Berlino, più ancora che i quattro scudetti e la decima Coppa Italia, dà il senso della rifondazione e, soprattutto, della distanza coperta. Tutti, da Pirlo a Pogba e da Bonucci a Tevez, hanno dato tutto. E se non è sembrato molto, non dimenticate chi avevano di fronte. Spesso, ci cascano anche gli esperti. Aver impegnato il Barcellona, aver sfiorato il Triplete dell’Inter di Mourinho: complimenti, di cuore.

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Tu chiamale, se vuoi, emozioni

Roberto Beccantini5 June 2015

Tutti vorremmo essere là, a Berlino. Juventus-Barcellona, finale di Champions League stagione 2014-2015. Ci si arriva stremati, non perché sarà dura (claro que sì), ma perché è stata dura pensarla, immaginarla, giocarla. Che il pronostico sia segnato (e per me lo è: 60-40 Barça) non significa rinunciare a forzarlo. Anzi.

Se in Europa è diverso, diversa è diventata anche la Juventus. Più solida, meno martellante, capace di gestire le doglie. Allegri le ha dato una pedalata rotonda, camaleontica. Dicono che il Barcellona sappia giocare «solo» in un modo, e la Juventus in molti: crediamoci. Il Barcellona è «soprattutto» Leo Messi più Suarez più Neymar. Poi viene il resto: e non sono spiccioli. Luis Enrique ha addolcito il soffocante torello di Guardiola, dicono che l’anello debole sia la difesa, e sarà pur vero, ma è la migliore della Liga, così come l’attacco è secondo a quello del Real, eliminato dalla Juventus.

I paradossi aiutano a rendere il calcio unico, ed esperti tutti coloro che lo sfogliano. Non è forse bizzarro che a invocare «difesa e pressing» da parte di Allegri, ripeto: difesa, sia proprio Sacchi, uno dei tecnici più «invasori» della storia?

Mancherà Chiellini, un guerriero. Barzagli darà il massimo, certo, ma sarà al massimo? Gli episodi, questi «impostori», potrebbero sabotare la trama, che resta affidata al bisturi di Messi e alle lune di Pirlo e Pogba, Iniesta e Mascherano. Si scuote come un albero il tremendismo di Tevez e si pesca a pieno tifo nel revanchismo di Morata, dimenticando i portieri (un classico).

Non un angolo che non sia stato esplorato, non un ciuffo d’erba. Saranno cruciali le fasce, come no. E il contropiede. La lunga vigilia ci consegna, cotti di passione e trepidazione, al fischio dell’arbitro. Juventus-Barcellona: se non ora, quando?