I segnali

Roberto Beccantini11 June 2016

Tanti segnali, dal battesimo di Parigi.

Il primo: ha deciso il migliore, Payet, ma non hanno vinto i migliori. Che fatica, la Francia, nel traslocare munizioni e ambizioni da un’area all’altra. Kanté è un gran ruba-palloni e Matuidi un bel motorino. Basta marcare a uomo Pogba, per sabotare i rifornimenti. Rami e Koscielny sono centrali di rottura, a Deschamps servirebbe un Bonucci.

Il secondo: la Romania ha giocato di gruppo e di fisico, a folate e a sciabolate. Che occasioni, Stancu, in avvio di partita e di ripresa (e che bravo Lloris, sulla prima). L’organizzazione può portare vicino all’impresa, teniamolo presente. O comunque, può accorciare le differenze. Complimenti a Iordanescu.

Il terzo: fuori Pogba. Un atto di coraggio, al di là del risultato, che l’ha premiato. Un paio di lanci e una volée su assist di Payet (a proposito). La pressione? Forse. I reticolati? Probabile. Ha accompagnato la partita senza prenderla mai in pugno. Nessun processo, nessun caso: un semplice flash.

Il quarto: il dribbling e l’audacia pagano. Non sempre, ma ogni tanto. Questa volta, per esempio. Dimitri Payet, classe 1987, gioca nel West Ham e, spesso, punta l’uomo come se fosse il destino. Lo stana, lo sfida. Ha pianto, uscendo. E’ un momento che va così. Le lacrime di Cosmi a Trapani, la commozione di Payet allo Stade de France: uomini, non caporali (e neppure caporioni).

Il quinto: se l’esempio deve venire dall’alto, e più in alto di un Europeo c’è solo il Mondiale, l’arbitraggio di gruppo non ha offerto nulla di clamorosamente speciale. Si può discutere il gomito largo di Giroud, anche se Tatarusanu, il portiere, era uscito un po’ molle. Netto il rigore di Evra, i cui 35 anni qui e là blindano i riflessi, non solo i contratti. Curioso, se mai, che l’abbia segnalato il giudice di porta.

Le volpi e l’uva

Roberto Beccantini3 May 2016

Sarebbe piaciuta a Esopo, la favola che Claudio Ranieri ha intitolato «Le volpi e l’uva», anche perché i contenuti sembrano fratelli. Solo il finale è diverso. Nelle versione originale, la volpe, spinta dalla fame, tentò di raggiungere un grappolo là in alto. Non riuscendoci, esclamò: «Nondum matura est». Non è ancora matura. Nella versione moderna, le volpi, the foxes, non hanno mai smesso di saltare e, alla fine, ci sono riuscite, l’hanno presa. Era matura.

Così il Leicester, questo Dorando Pietri alla rovescia, sempre sul punto di crollare e mai crollato, è campione d’Inghilterra per la prima volta nella storia, 24a. società inglese ad aggiudicarsi il titolo. Il timbro ufficiale è arrivato dal rissoso 2-2 tra Chelsea e Tottenham, l’unico avversario scampato alla decimazione.

Lo davano 5000 a 1, in estate. Si era salvato in extremis, aveva reclutato sì e no tre pezzi: N’Golo Kanté, Christian Fuchs, Shinji Okazaki. E poi l’allenatore. Claudio Ranieri chi? Il camaleonte solido. L’eterno secondo (con la Juventus, con la Roma, quando riuscì a perdere uno scudetto vinto, con il Monaco, con lo stesso Chelsea prima dell’era Mourinho). Quello che a Torino chiamavano, con sarcasmo, il «cantante».

Si parlerà a lungo, del suo Leicester, della sua impresa. E di Jamie Vardy, il centravanti della fabbrica accanto. E di N’Golo Kanté, il trottolino amoroso pescato a Caen. E di Ryad Mahrez, l’algerino dal dribbling alla «guarda come dondolo, guarda come dondolo» scovato a Le Havre. E di Kasper Schmeichel, figlio di Peter, il lucchetto di casa Ranieri. Già si pensa di fare un film, delle volpi e della loro uva.
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Fino al confive

Roberto Beccantini25 April 2016

Da Combi, Rosetta, Caligaris a Buffon, Barzagli, Bonucci: parlando di sé, la Juventus ha scritto di nuovo la storia del calcio. Cinque scudetti dal 1931 al 1935, altri cinque dal 2012 al 2016. Trentadue in tutto. L’ultimo le è stato consegnato in un giorno un po’ così, visto che il 25 aprile di ventun anni fa ci lasciava Andrea Fortunato, proprio dalla Roma ancora di Turone e sempre del Pupone. Ha sconfitto il Napoli di Higuain, al rientro. Non avrebbe meritato di perdere, la squadra di Sarri, ma ha perso. Le era già capitato allo Stadium.

Dodici punti a tre turni dal termine. Nel 2015 e nel 2014 furono diciassette, addirittura, sulla Roma di Garcia. Nel 2013, nove sul Napoli di Mazzarri; nel 2012, quattro sul Milan di Allegri (toh). Sono sincero: non l’avrei mai detto. Dopo la sconfitta con il Sassuolo, la quarta in dieci partite, sfilai al «funerale» come tanti (ma non tutti: ricordo; e a quei pochi, complimenti).

Ventiquattro vittorie in venticinque partite: una rimonta ro-man-ze-sca. I pazienti non juventini discettino pure di aiutini assortiti. E’ stata la superiorità, schiacciante, a polverizzarne gli effetti. Se il primo scudetto fu esteticamente il più bello, e gli altri incarnarono una via di mezzo tra il bello e il pratico, con netta prevalenza del pratico (in Allegri, soprattutto), l’ultimo è stato, come trama, il più salgariano. Da un ciclo all’altro, le partenze di Pirlo, Vidal e Tevez produssero orfani inconsolabili. E poi quel campionato strano, tutto di «sinistra», con l’alternanza al potere, prima l’Inter, poi la Fiorentina, quindi la Roma e il Napoli. Fino al pugno sul tavolo che, per primo, diede Cuadrado nel derby.
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