Via sull’onta. Ma che Dea!

Roberto Beccantini9 March 2025

Cinque vittorie di fila, la miglior difesa, le edicole che blateravano di scudetto. Poi arriva la Dea che, fra parentesi, allo Stadium non perde dal 14 marzo 2018: zero a quattro. E il migliore è stato il portiere, Di Gregorio. Mentre gli opliti del Gasp, tutti dall’otto in su salvo Carnesecchi, impegnato solo agli sgoccioli del massacro. Un trionfo, l’Atalanta. Una lezione di personalità, di gioco, di gambe. E una trama lontana, lontanissima dall’1-1 dell’andata, ordalia che offrì una delle Juventus più piene.

Il mani-comio di McKennie, al 28’, e il rigore trasformato da Retegui hanno spaccato equilibri già fragili. In trasferta è «diversa», la Dea. Si sapeva. In casa, come documentano gli 0-0 con Cagliari e Venezia, soffre i muri. In viaggio, ne trova di meno. O trova «questa» Juventus. E così va via di forza, di slancio. Assorbe e riparte. Gasp si gioca subito Cuadrado: bella idea. Thiago, Nico a sinisra e Yildiz (menomato da un virus, ho letto) a destra: bruttissime idee. Ogni palla persa, le terga offerte agli avversari. Che ringhiano, che azzannano, che mordono.

Tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo succede di tutto: palo di Lookman, doppio miracolo di Di Gregorio su Lookman e Zappacosta. Quindi lo sgorbio di Kelly, l’ennesimo tuffo di Di Gregorio su Lookman e la randellata di capitan De Roon. Era entrato Koop, era uscita – da un pezzo – Madama. Fischiata e abbandonata. Fumo negli occhi, i cambi di Motta: Kolasinac, col tacco 12, smarca Zappacosta. E da un grottesco patatrac di Vlahovic sgorga il poker di Lookman. Ineluttabile sì, ma persino ovvio, naturale.

La classifica recita: Inter 61, Napoli 60, Atalanta 58. E domenica sera, Atalanta-Inter. Madama, in compenso, andrà a Firenze, abbarbicata a un quarto posto che molto scricchiola. Li avevamo tanto illusi, per un’estate e forse più. Anno zero (a 4).

Elogio della semplicità. E di Fort Alisson

Roberto Beccantini5 March 2025

C’era cascato il Milan, tra una papera (di Maignan) e un rosso (a Theo), non c’è cascata l’Inter. Figuriamoci: due a zero e salutoni dalla «Vasca». Fresco ma incerottato, il Feyenoord di Van Persie, terzo mister della stagione, non rimanda certo all’Elogio della follia di Erasmo, ma tant’è. La Champions non tollera montagne russe, e meno che meno distrazioni. Inzaghino aveva mescolato le carte, non il modulo. In assenza di esterni mancini, ecco Bastoni. Poi Zielinski e Asllani, con Calhanoglu e Mkhitaryan in panca.

Per vincere qualcosa, ammoniva mastro Lippi, bisogna cercare di vincere tutto. Parole sante. E fachiresche. L’1-1 del Maradona aveva lanciato in orbita Sputnik sinistri, legati alle ricorrenti flessioni. Non è stata una partita da rime baciate, anzi, per una mezz’oretta meglio i batavi, poi, d’improvviso, la scossa. Discesa di Dumfries, cross di Barella, zampata di Thuram, sul quale, fin lì, ci si interrogava: quando tornerà al top?

Il calcio è questo. A volte, bisogna sostituire lo smoking con i jeans, calarsi nei vicoli della realtà e regolarsi di conseguenza. Con le idi di marzo incombenti, e gli obiettivi tutti ancora febbrilmente in palio, il risultato diventa dittatore. Tolto dalla fascia Paixão, che da ala aveva bullizzato il Diavolo, è parso l’inquilino qualunque di un casermone di periferia.

La mediocrità del contesto e la parsimonia delle cadenze hanno permesso ad Acerbi e De Vrij di tenere sotto controllo la situazione, compresi gli attimi di turbolenza, invero rari. La schioppettata di Lautaro, su munizione fornita da Zielinski, liquidava la pratica in avvio di ripresa, rendendo marginale il rigore varista parato al polacco.
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Vox populi

Roberto Beccantini5 March 2025

Quando una voce ci lascia, chissà perché verrebbe voglia di urlare. Bruno Pizzul avrebbe compiuto 87 anni l’8 marzo, il giorno delle mimose. Era nato a Udine, viveva a Cormons, è morto a Gorizia, laureato in giurisprudenza e senza patente, la moglie Maria detta «Tigre» che ne marcava stretto le nuvole di fumo, i tre figli, gli undici nipoti, una carriera piena.

Avendo giocato a calcio – mediano di Catania, Ischia e Udinese, prima che un grave infortunio a un ginocchio gli spezzasse i sogni – non aveva bisogno di invaderlo per raccontarlo. E così fece. E così fu.

Entrò in Rai, per concorso, nel 1969. Battesimo, uno spareggio di Coppa Italia tra Juventus e Bologna nell’aprile del 1970. Arrivò che si era già al 16’ (ma per fortuna, sarebbe andata in differita): si narra, per un pranzo con Beppe Viola, che lo definiva «la persona più buona del mondo». Giovani del Web, in piedi: Bruno era colto e misurato, attributi oggi in disuso, e ha accompagnato la Nazionale dal 1986 al 2002. Era all’Heysel, quel maledetto 29 maggio 1985 («Il ricordo più angoscioso»), e fu la colonna sonora delle pupille di Totò Schillaci e delle notti magiche (meno una) del 1990. Amico di Enzo Bearzot, friulano come lui, e Azeglio Vicini ha preso sul serio il mestiere senza prendersi sul serio.

Guardava (quasi) tutti dall’alto per via del suo 1,93, non certo perché si dava delle arie. Polisportivo di commenti, dal canottaggio al pugilato e al tennis da tavolo, è stato attore e testimonial. A Milano abitava in via Losanna, non lontano da casa mia. Ci si incontrava di rado, ma ogni volta era come un rubinetto aperto, via con i ricordi, i paragoni, gli aneddoti. Con le statistiche e i numeri intratteneva rapporti formali. Non era un Tir che investiva il telespettatore. Era Pizzul. «La tradizione non è il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco». Ciao, Omone.