Catenaccio in smoking

Roberto Beccantini2 September 2023

Dopo Spalletti, pure Rudi: per mastro Sarri il Maradona è ormai miele, non fiele. A marzo, 0-1; a settembre, 1-2. La Lazio rimontata a Lecce e sgonfiata da Retegui. Quella. E i campioni sempre a cassetta – fin troppo, a volte – uguali nel ghigno, non negli artigli. Kim non c’è più, Kvara non ancora (un tempo, e via calando), Osimhen può molto, non tutto: specie se ai domiciliari (Casale, Romagnoli) e, per questo, gli arriva poca roba. Il resto, bollicine sparse – a eccezione dello stoico Lobotka – e una «lunghezza» fra i reparti sintomo, a scelta, di arroganza o carenza (di benzina). Forsennati, i ritmi; e un disastro, Olivera sull’uscio di Felipe.

Catenaccio in smoking, l’Aquila lotitiana. Contro i più forti, non è mai reato. Un po’ di Provedel in avvio e, a proposito di papillon, i dribbling di Felipe Anderson, il tacco di Luis Alberto, pareggiato da un tiro carambolato di Zielinski, sempre a un passo dal podio più alto, il velo del mago e il diagonale di Kamada, un nippo che Mau sta impostando da formichina di centrocampo, laboriosa e coraggiosa.

Garcia ha poi sganciato Raspadori e il Cholito. Come non detto. Segnalo agli spasimanti del fuorigioco i gol di Zaccagni e Guendouzi (dall’eccellente impatto) annullati dal Var per una buccia di ginocchio e, vedi Rabiot, «perché impattava» (Zaccagni, lui). E’ la tecnologia, bellezze.

** Roma-Milan 1-2. Per un’ora, al di là del rigorino, il terzo in tre gare, un Milan «dominus», termine che manda in estasi l’Arrigo, su tutta la linea: tecnica, tattica, fisica. Con Pioli a capo-tavola e Mou a prendere la comanda. Alla acrobazia di Leao, bellissima, Celik ha fornito generosamente il corpo come parete. Non tutti, però, sarebbero riusciti a fissarci un quadro sì vistoso.
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La Champions dei «ritorni»

Roberto Beccantini31 August 2023

Riecco la Champions, Banca centrale europea del calcio. Caccia al Manchester City del Pep, senza dimenticare che, la scorsa stagione, il nostro calcio produsse tre finaliste: l’Inter proprio lì; la Roma in Europa League; la Fiorentina in Conference. Tutte sconfitte, ma come diceva Nelson Mandela: «Io non perdo mai: o vinco o imparo». Morale: guai a fare gli sbruffoni, guai a fare gli sfascisti. Il cielo si è abbassato, e le stelle ci guardano da lontano, molto lontano: Cristiano dall’Arabia, Leo dagli States. Addirittura.

Il rito del sorteggio semina tracce, non sentenze: anche se alcuni pronostici possono sembrarlo, davvero. Com’è andata: benone all’Inter (che partiva in seconda fascia), bene al Napoli (l’unica in prima classe), benino alla Lazio e così così al Milan, entrambe in terza.

Spulciando qua e là. Ancelotti torna sotto il Vesuvio con la doppia carica di tecnico del Madrid e del Brasile (da giugno). Courtois e Militao sono k.o. Vinicius un po’ meno. Occhio a Ehi Jude Bellingham: classe 2003, metà rifinitore metà cannoniere. Per ora, almeno. Ripassare la storia non è mai esercizio futile. E Garcia ne ha bisogno. Tranquillo: Spalletti gli ha lasciato una Red Bull, non una Ferrari. Da non trascurare, inoltre, la partenza-sprint dell’Union Berlino, che dopo Gosens ha scritturato persino Bonucci, 36 anni di malizia liquidati da Madama non proprio in punta di brindisi.

Inzaghino ritrova il Benfica, già liquidato in era Lukaku, con un Di Maria in più. Sarri, che non ha mai amato la politica del «doppio binario», dovrà guardarsi dal Cholismo dell’Atletico e dalla cavalleria leggera del Feyenoord.

E poi c’è Pioli. Sulla carta, il girone più agguerrito: tra il gran bordello del Paris Saint-Qatar,
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E Magnanelli?

Roberto Beccantini27 August 2023

Prima di tutto, standing ovation per il Bologna. Non più il pugile suonato dal Milan, ma un Alì svolazzante come una farfalla e pungente come un’ape. Zirkzee falso nueve, Ndoye e Orsolini larghi sulle ali, Ferguson a cogliere l’attimo e il corridoio. Come sul gol, ispirato dall’ennesima sponda di Zirkzee. Dietro, Beukema e c. a presidiare i valichi al modico prezzo di zero tiri concessi. E se nella ripresa, sullo 0-1, Thiago Motta avesse avuto il rigore che meritava (Iling-Junior su Ndoye, pure da rosso), chissà come sarebbe andata. Chi scrive, un salto al video lo avrebbe fatto, voi?

La Juventus, adesso. Prendete la versione di Udine e sparpagliatela tra i fantasmi d’antan. Ci si chiedeva, attoniti, dove fosse finito Magnanelli, e perché mai Allegri lo avesse deportato. Geloso, forse, del ventello in Friuli. O senza forse. Perché sì, era tornata la solita Madama, lenta e grigia. Con Chiesa prigioniero, e non più libero, d’attacco. Con Vlahovic accerchiato e comunque greve negli appoggi. Con Weah timido e Cambiaso, l’ex di turno, imbottigliato da sodali che ne conoscevano a memoria i sentieri. Locatelli e Rabiot procedevano a passo d’uomo, non un’idea, non una scintilla. E non appena gli avversari recuperavano palla, vacillava più Perin che non Skorupski.

Se la fantasia si dimena sepolta dalle sabbie mobili di una squadra più attenta all’edicola che non alle analisi, servirebbero velocità di pensiero, precisione dei piedi, un dribbling. Sì, un dribbling. Invece no. La solita brodaglia, alll’attacco per dovere, aggressiva per emergenza, due gol di Vlahovic, il primo annullato da un fuorigioco «varista» di Rabiot, il secondo valido almeno per il pari, senza però quei guizzi che, soli, sconfiggono la mediocrità. Dai cambi la manovra ricavava poco, a differenza del risultato. Pogba, persino. Temo che il passato passi, a volte.