Hic Rodri hic salta

Roberto Beccantini15 June 2023

Patti chiari, sempre: palla a loro, contropiede a noi. Poi scarti il pacco ed estrai il risultato: 1-1 agli Europei, con i rigori a baciarci; 1-2 a San Siro, in Nations League, con Bonucciata di nervi; e 1-2 a Enschede, sempre per la Nations League, con ennesima Bonucciata (di piede, stavolta).

Se isoli gli episodi – gol di Frattesi annullato per mezza scapola in fuorigioco, su lancio filtrante di Jorginho; grande parata di Donnarumma su Merino, idem Unai Simon su Frattesi, otra vez, incursore emerito – rischi di scivolare sulla buccia di un giudizio mentiroso. Da Luis Enrique a De la Fuente, le furiette continuano a masticare calcio attorno a quel capo assoluto che si sta rivelando Rodri (citofonare Inter). L’Italia, viceversa, è da un po’ che naviga a vista, abbarbicata a un 3-5-2 che, a naso, ne penalizza il coraggio più di quanto non ne fortifichi la manovra: penso a Di Lorenzo, trave nel Napoli pagliuzza in Nazionale.

Le orme dei gol aiutano a tracciare i confini dell’analisi: fotta di Bonucci e interno destro di Yeremy Pino; braccio alto di Le Normand, all’esordio, e rigore di Immobile (tutto lì, Ciro); tiro di Rodri, doppia carambola e zampata di Joselu, «unto» dal signore delle mischie. Aveva sostituito Morata, del quale non si discute la generosità, ma l’istinto sotto porta. Dai suoi cambi, in compenso, il Mancio non ha ricavato altrettanto: Verratti periferico, Chiesa spaesato (né ala né punta: dove l’ho già sentita?). A parte, lo Zaniolo di ritorno: siamo ancora alle sportellate dimostrative.

Ci hanno tritato soprattutto a metà campo. Per fortuna, il 62% di possesso non ha prodotto sconquassi. Se Olanda-Croazia 2-4 dts era stata movida selvaggia, Spagna-Italia è diventata, per dirla con Borges, una rissa fra due calvi che si contendevano un pettine. Ha vinto, alla fine, il meno pelato.

Silvio, c’era una svolta

Roberto Beccantini12 June 2023

Silvio Berlusconi è stato un politico di destra che, nel calcio, ha fatto una rivoluzione di sinistra. Scrivere di sinistra farà sorridere, ma deve far meditare. «Di sinistra» nel senso di svolta estetica, di visione ricca di sostanza, e non unicamente di sostanze, di ville o di scandali. In smoking e non in jeans. Di gioco e non banalmente di giochi. Di faccia e non semplicemente di facciata. Che solo dopo la «discesa in campo», nel 1994, deragliò. Non l’ho mai votato, ma il suo Milan è stato un confine.

Mattone, televisioni, polisportive: fino a battezzare il calcio, solo il calcio. Non so dove sarebbe arrivato se fosse nato in un altro Paese, visto il conflitto di interessi che lo ha sempre accompagnato e raccontato. Ricordo che, appena rilevato il Diavolo dalle grinfie stanche e bucate di Giussy Farina, se chiamavi in sede e chiedevi del dottor Berlusconi, rispondeva lui. Era, ed è diventato, un maratoneta delle interviste. Al colpo dello starter (e della domanda) non mollava mai la parola. L’esatto contrario dell’Avvocato, di cui teneva una foto sul comodino, che, con la sua cinica stringatezza, avrebbe anticipato twitter.

Il Milan di Silvio. Quando lo presentò all’Arena, tra cavalcate delle Valchirie ed elicotteri battenti, ci demmo di gomito, ridemmo di lui, e non solo con lui. Ci sembrava, pur così Paperone e così bauscia, il comandante dell’esercito di un atollo piccolo piccolo. Prossimo a essere inghiottito dall’alta marea della presunzione, dell’arroganza, della concorrenza.

Viceversa, era l’ammiraglio della Sesta flotta. Il suo Milan. Quel Milan. Con Adriano Galliani l’antennista, la Camelot di Arcore, la parabola delle crostate. Sapeva scegliere la gente che avrebbe dovuto scegliere. Arrigo Sacchi non era nessuno. In gioventù, un terzinaccio confuso fra le ragnatele di un’altra Romagna, infinitamente più dolce e solatia.
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Di corto Pep

Roberto Beccantini10 June 2023

Di corto muso, di corto Pep. E’ la prima Champions del Manchester City; la terza di Guardiola, la prima lontano dalle due del Barcellona con Messi, Iniesta e Xavi. Arriva da Istanbul, a cavallo di un italianissimo 1-0, conteso fino all’ultimo da un’Inter che ha sofferto, sì, ma non si è mai arresa. E sul piano delle occasioni spicciole, anzi.

Il risultato conta nelle amichevoli, figuriamoci in una finale. Avevo letto pronostici follemente sbilanciati, come se il calcio fosse una scienza esatta. E invece è un inno all’imperfezione: nel bene e nel male. Specialmente in una gara secca.

Campionato, coppa, Europa: il City degli emiri realizza, così, il triplete. Imbattuti da settembre, un po’ stanchi alla meta, ma sempre squadra. Anche nei momenti d’emergenza. Rari, nell’arco della stagione: non pochi, nella notte sul Bosforo. I Blue moon hanno fatto la partita, la squadra di Inzaghino ha giocato come doveva, e non solo come poteva. L’ha tradita Lau-Toro, egoista sullo 0-0. E, dopo la traversa di Dimarco, segno di un destino se non proprio schierato almeno capriccioso, persino Lukaku, di testa, a tu per tu con un Ederson fin lì amletico, e da lì eroe omerico. Anche sull’ultima raffica di Gosens, in coda alla coda.

E’ stata una partita brutta, piatta, per un tempo. Al City il cuore del ring, come era nei voti. Agli avversari, i cambi di gioco e un paio di potenziali contropiedi. Magri, i brividi: un sinistro di Bernardo Silva, una sassata di Haaland murata da un Onana non meno «ballerino» di Ederson.

L’infortunio di De Bruyne ha liberato Foden, prezioso nei ricami, straordinario in un numero che avrebbe giustificato il raddoppio (tiro fiacco, sul portiere). Inzaghino ne esce con una sporta di tanti rimpianti e pochi rimorsi. In generale, le difese hanno disarmato gli attaccanti: Haaland, Dzeko, Martinez, lo stesso Lukaku.
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