Sciupona

Roberto Beccantini23 February 2025

Hanno giocato tutti per la Juventus: la Lazio, il Bologna, il Milan, la Fiorentina. Tutti, persino la Juventus. Quarta vittoria di fila in campionato, quarto posto da sola. L’1-0 di Cagliari è scarto fin troppo scarno, al netto della sofferenza generata dall’ingresso di Luvumbo e dell’artiglieria pesante (Coman, Pavoletti) e dall’ineluttabile arretramento dei carri mottiani.

Reduce dal macigno dei supplementari olandesi, Madama ha dominato per una mezz’ora buona, creando e sprecando a man salva. Thiago si era impiccato a Koop, rinunciando a Thuram. Dentro, subito, Vlahovic e Yildiz: guarda un po’. Locatelli, che Nicola abbandona colpevolmente a sé stesso, domina, libero, il fraseggio. Madama fa quello che vuole. Aggressiva. Autoritaria. A segno già al 12’ con il serbo, che si mangia Mina (vagante), scarta Caprile e infila, alla Sivori, con uno di quei tiri che non «finivano» mai, da posizione defilata.

Accusano il colpo, i sardi. Il cui portiere, però, decide di non arrendersi e, per questo, risulterà l’hombre del partido. Caprile salva due volte su Yildiz, smarcato da Di Gregorio e Vlahovic, e una su Conceiçao, che poi, ciccando un cross di Koop, lo grazia. Per una notte, spari a parte, tutto o quasi come da lavagna.

Se da un primo tempo così ricavi la miseria di un golletto, non è detto che il destino gradisca. E infatti si era impermalosito. Le staffette di Nicola (Luvumbo, in particolare: a sinistra, non a destra) spingevano la squadra. La Goeba rinculava, anche per via dei cambi di Motta che, tra infortuni e sfinimenti, lasciavano il centrocampo agli avversari (Loca fuori, uhm). Ma, va detto, zero parate di Di Gregorio. E, in contropiede, un rigore (di Luperto) sfilato a Vlahovic e un altro paio di occasioni sciupate per eccesso di «masturbatio grillorum». Clamorosamente, alla distanza, Vlahovic «più» Kolo. Proprio «stranino», come dicevano a Bologna, il Cipressone.

Quel ramo del mago di Como

Roberto Beccantini23 February 2025

Sorpasso, dunque. Inter 57, Napoli 56. Cadono, i fanti di Antonio, a Como, quarta partita senza vittorie e quarta sconfitta dopo tre pareggi. Il 2-1 sorvola gli aspetti della cronaca e gli spettri degli episodi. Quel Cesc del ramo di Como. Giù il cappello. Sull’uno pari, mette una punta in più, Cutrone, e se la gioca fino alla fine (a proposito), premiato dal ricamo di Nico Paz per il destro di Diao nel cuore di una difesa in bambola.

Del Napule mi ha deluso, molto deluso, il secondo tempo. L’agenda libera avrebbe dovuto suggerire ben altra cazzimma. Eppure di avvisi di «garanzia» ce n’erano già stati. Al netto dei garbugli che avevano spaccato e ricomposto l’equilibrio: il suicidio di Rrahmani, con Meret fuori porta, un autogollonzo all’altezza del tamponamento Maignan-Thiaw di sabato, a Torino; il mezzo harakiri di Kempf, borseggiato da Raspadori.

La ripresa, dicevo. Il nulla di Lukaku. La panchina di Anguissa, diffidato e, per questo, sdoganato giusto agli sgoccioli. Le gambe che giravano in sordina, o comunque non come il loggione si sarebbe aspettato. E le idee. I proprietari indonesiani del Como hanno saputo scegliere la gente che deve scegliere. E Cesc Fabregas, scuola Barcellona, è un allenatore che mi aveva incuriosito sin dalla serie B. Propone, rischia. Avrà i suoi difetti, ma trasmette emozioni, non semplicemente nozioni.

Conte Dracula. Al posto di Kvara è stato reclutato uno scarto del Milan, Okafor. Il giocatorista che è in me frigge. Troppo, il Martello salentino, l’ha menata con il mercato e aver sparso polvere sul futuro, proprio in un frangente così delicato, non ha aiutato, non può aiutare. Nemmeno De Laurentiis, tornato ‘o Pappone.

Le idi di marzo, a caccia perenne di un Cesare e di un Bruto, incombono fatali. Sabato, al Maradona, Napoli-Inter. Mamma mia.

Come all’oratorio

Roberto Beccantini22 February 2025

Ogni tanto il pallone torna «bambino». Lucca che a Lecce, renitente alle gerarchie e agli ordini, sequestra il rigore (e lo trasforma, per fortuna sua), come facevamo noi bambini all’oratorio, se e quando padroni dell’attrezzo. L’autogollonzo di Thiaw, investito dal rinvio di Maignan. La punizione battuta in fretta da Sanabria, per il sinistro improvviso di Gineitis. Milinkovic-Savic in versione Jashin, rigore murato (a Pulisic) e almeno tre tuffi di gran classe.

Naturalmente, diranno che bravo Vanoli e che pirla (il solito) Sergio. Brutta, bruttissima settimana: l’uscita dalla Champions, e questo k.o. che, dall’altra Champions, quella del campo, lo allontana. Due suicidi. Tutti e quattro in scena, i «ballerini» (Pulisic, Gimenez, Joao Felix, Leao): perché non a rate? Il harakiri di capitan Mike (che si riscatterà poi su Ricci e, soprattutto, su Vlasic) spacca subito l’ordalia e la indirizza verso un ritmo british assai. Diavolo all’arrembaggio, avversari in trincea. Leao è un mezzo fantasma, Gimenez o gol o zero, Joao (poco) Felix ruba spazio a Reijnders che, non a caso, pareggerà non appena uscito il Cassano minore.

Ricapitolando: la «garra» del Toro, le lune del Diavolo. Nessun dubbio che un punto a testa sarebbe stato verdetto più equo. Ma pochi dubbi, pochissimi, sul fatto che, se il Toro è una squadra con dei limiti, il Milan è un bouquet di limiti che qua e là fanno squadra. Dall’ultimissimo Pioli, non dai portoghesi.

Di fatica e di forza, l’Inter. Come gioco, meglio il primo tempo dello Stadium. Il Genoa di Vieira le resiste (e la stuzzica) fino al 76’. Angolo di Calhanoglu (un cambio, toh), testa di Lautaro, spalla di Masini. Prima, traversona di Barella e paratona dell’ex Martinez su Ekuban. Dopo, spazi e contropiedi, con Leali in vetrina. Ancora rotto Correa, ancora legnoso Taremi. Però 1-0.